Titolo originale: Linda Linda Linda
Nazionalità: Giappone
Anno: 2005
Genere: Commedia, Drammatico, Musicale
Durata: 114 min.
Regia: Nobuhiro Yamashita
Cantiamo una canzone senza fine
Mancano ormai pochi giorni alla festa scolastica di fine anno del liceo della provincia giapponese di Shibazaki e tre studentesse sono alla disperata ricerca di una cantante per il festival rock organizzato dalla loro scuola proprio in occasione dell’evento, visto che Moe (la chitarrista e abituale del gruppo) si è infortunata alla mano. Decidono allora di prendere una persona a caso ed è così che chiedono a Song, una ragazza coreana iscritta alla scuola grazie a uno scambio culturale tra i due stati, di sostituire l’amica. Song, che ancora non conosce bene la lingua, accetta senza ben capire di cosa si tratti.
Do-bun ne zu-ni Mita-ini
Utsukushiku nari-tai
Sya-shi-n-niwa utsuranai
Utsuku-shisa-ga aru-kara
The Blue Hearts, 1987
Qualora vi capitasse di incappare in recensioni incentrate sulle ultime stagioni cinematografiche giapponesi, avreste la possibilità di notare senza fatica il termine rock appioppato a Nana di Kentaro Otani, commedia agrodolce senza troppi spunti d’interesse – e neanche troppo originale, vedere per credere Girl di Jonathan Kahn. Pochi infatti hanno notato come il vero fenomeno cine-musicale dell’anno – ma anche degli ultimi decenni –, sia stato rappresentato da Linda Linda Linda, opera quinta di Nobuhiro Yamashita. Il plot, già riportato dianzi, è presto detto: tre adolescenti giapponesi sono alla ricerca di una cantante per il festival rock organizzato dal loro liceo, e la trovano in Song, una ragazza coreana iscritta alla scuola grazie a uno scambio culturale tra i due stati. Le quattro, lavorando sui pezzi giorno e notte, intesseranno una bella amicizia.
Insomma, nulla di particolarmente innovativo, almeno a giudicare da questi brevi cenni sinottici; ma la realtà è ben diversa. Iniziamo dalla durata, che sfiorando le due ore si distacca con forza dalla prassi del teenage-movie, solitamente arroccato sull’ora e mezza segnalata da Robert McKee come uno dei comandamenti principali della “sceneggiatura perfetta”. Yamashita si prende altresì i suoi tempi, o meglio i tempi giusti, dilatando l’azione e preferendo la calma e la pacatezza alla frenesia che spesso viene intesa come sinonimo di un’indole rock. E con questo non si intende assolutamente avallare l’ipotesi, portata avanti anche da un pur entusiasta Pier Maria Bocchi alla presentazione al Far East 2006, che Linda Linda Linda sia un film lento, rivitalizzato dal finale. Al contrario, l’intera struttura narrativa creata, oltre che dallo stesso Yamashita, da Kosuke Mukai (collaboratore fisso del regista) e Miyashita Wakako, porta a compimento un lavoro dal ritmo continuo, privo del benché minimo blackout, e sul quale l’autore di Ramblers e No One’s Ark può stendere una regia che predilige la costruzione dell’azione all’interno del quadro fisso al posto di un montaggio vorticoso: ne è dimostrazione palese già l’incipit, nel quale vediamo la registrazione video della presentazione del festival organizzato dalla scuola.
Laddove sarebbe stato facile sfruttare la differenza di grana e di peso cinematografico tra video e pellicola, magari ipotizzando una macchina a mano traballante, Yamashita costruisce un quadro impeccabile, dove lo sfondo serve sia a mettere a fuoco il luogo portante della vicenda (il liceo), sia a dare le redini del film in mano agli studenti. Perché in questo film sugli adolescenti c’è spazio solo ed esclusivamente per loro, con gli adulti relegati a ricoprire solo misere, e poco definite, figure di contorno. Il contatto tra il mondo degli adulti e quello dei ragazzi è infatti sempre labile e, quel che più conta, non influisce minimamente nello svolgersi degli accadimenti: ecco dunque un altro τοποσ del teen-movie che viene bellamente scardinato dall’interno. Rispetto ai dettami di un genere che ha sempre posto l’accento, dagli esordi degli anni Cinquanta fino all’esperienza fondamentale di John Hughes, sull’esigenza di una contrapposizione che mettesse in risalto il gap generazionale e ne sfruttasse drammaturgicamente le tensioni, Linda Linda Linda si muove in direzione diametralmente opposta. La gioventù rappresentata nella pellicola di Nobuhiro non è problematica, non è spinta alla musica dal ribellismo figlio di stratificate pose maudit (come ad esempio nel già citato Nana), ma coglie semplicemente l’occasione di una festa organizzata dal proprio liceo per divertirsi. Non c’è sfogo né urlo disperato nella voce di Song, ma semplice piacere ludico, lo stesso che dopotutto pervade lo spirito dei brani dei Blue Hearts, la band di punk melodico giapponese che il quartetto sceglie di coverizzare – è interessante notare come siano anche altri i riferimenti musicali interni, dalla ragazza in mise da Ani DiFranco con gli occhi a mandorla alla sequenza onirica con protagonisti i Ramones, fino al brano di James Taylor cantato a cappella e, soprattutto, alla fluida e (dis)armonica colonna sonora originale composta per sola chitarra elettrica da James Iha, transfuga dai quasi riformati Smashing Pumpkins.
Ed è proprio il personaggio della coreana Song – interpretata dalla straordinaria Bae Doo-na, che qualcuno ricorderà già in Sympathy for Mr. Vengeance di Park Chan-wook – a risultare una delle carte vincenti del film: ogni volta che Bae è in scena, con lo sguardo preoccupato di colei che non domina completamente la lingua, ruba letteralmente l’inquadratura e spinge tutti gli occhi su di sé. Non a caso due delle sequenze migliori la vedono protagonista: la prima è una grottesca, deliziosa dichiarazione d’amore sui generis che un compagno di scuola le fa. Mentre lui le parla di tutte le volte che l’ha notata all’inceneritore del liceo lei lo guarda con tanto d’occhi, incapace di comprendere appieno tutto ciò che le viene detto e pronta a sgattaiolare via appena può, per poter incontrare le amiche della band. È ora il ragazzo a non capire bene come sia finito il dialogo, in un crescendo comico che dimostra pienamente l’etica cinematografica alle spalle del progetto. La seconda sequenza è ambientata la notte prima del fatidico giorno del concerto: Song sale sul palco che le ospiterà di lì a poche ore e fa le prove di presentazione al pubblico. Ancora una volta Yamashita svela i rimandi nascosti del suo film che, aggirando come abbiamo avuto modo di vedere la logica del teen-movie si assesta con decisione dalle parti della comicità di Jim Jarmusch e Aki Kaurismäki.
Dai loro film provengono il gusto del paradosso, l’uso del campo lungo e della macchina fissa, il sapiente dosaggio dei silenzi e la sintetica naturalezza dei dialoghi, senza dimenticare che sia Jarmusch che Kaurismäki hanno più volte affrontato il rapporto tra cinema e musica. Eppure Linda Linda Linda è un film profondamente orientale, per niente svenduto a dinamiche occidentali (e ancora una volta, per contrasto, ci troviamo a fare i conti con la memoria di Nana), che analizza la società nipponica proponendo un punto di vista quantomeno inusuale quando non propriamente in controtendenza. Il liceo non prevede scene di bullismo (alle quali ci stanno sempre più abituando le pellicole dell’estremo oriente, dalla Corea del Sud al Giappone passando per la Thailandia e le Filippine), non ci sono amori eterni ostacolati nè invidie tra coetanei, non c’è neanche – e questa è forse la scelta narrativa più eversiva – la ritualizzazione formale solitamente ostentata soprattutto nei film giapponesi.
Non ci sarebbero addirittura spettatori a premiare lo sforzo tremendo affrontato nelle prove musicali dalle quattro ragazzine se non fosse per un improvviso temporale estivo che impedisce lo svolgimento della festa liceale anche all’esterno dell’edificio, colpo di scena inatteso e geniale. Tutta l’enfasi che sarebbe stato comodo sfruttare per rendere epico un semplice istante di vita (e dunque snaturarlo, renderlo mito al di là di ogni possibile realtà) viene meno, sostituita da una genuinità sempre più rara nel cinema, soprattutto in progetti dedicati all’adolescenza come questo. Quando, dopo il successo di Linda Linda, Nozomi, Kei, Kyoko e Song si gettano a corpo morto sul secondo brano il montaggio stacca dalla diretta del concerto per trasportarci in tutti quei luoghi che, se solo il tempo avesse retto, sarebbero stati invasi da gente festante (l’esterno del liceo, la piscina, l’area degli armadietti) per poi proporci non i primi piani delle quattro – per quelli basterà aspettare qualche altro secondo, posti come anticipazione dei titoli di coda –, ma il totale della palestra dove si sta svolgendo la kermesse musicale, con un gruppetto di ragazzi esagitati e saltellanti ma con buona parte dell’uditorio sostanzialmente disinteressata al tutto, seduta in fondo alla sala. E questo particolare che potrebbe passare inosservato ci sembra, anche a distanza di settimane dalla visione del film, una dimostrazione di poesia così pura e spiazzante da lasciarci muti ad applaudire.
P.S.: un applauso a parte, senza fine come la seconda canzone dei Blue Hearts suonata al concerto, alla già citata Bae Doo-na e a Shiori Sekine, Yu Kashi e Aki Maeda: raramente è stato possibile apprezzare una recitazione sommessa e anti-spettacolare come quella messa in mostra da queste ragazze.
Recensione: quinlan.it