DOGS DON’T WEAR PANTS [SubITA]

Titolo originale: Koirat eivät käytä housuja
Paese di produzione: Finlandia, Lettonia
Anno: 2019
Durata: 106 min.
Genere: Commedia, Drammatico
Regia: Jukka Pekka Valkepää

Dogs Don’t Wear Pants è il terzo lungometraggio del cineasta finlandese Jukka Pekka Valkeapää. Un film che parte come un oscuro dramma sull’elaborazione impossibile del lutto e si trasforma in una tragicommedia sul mondo del BDMS. Alla Quinzaine des réalisateurs.

Soffocami
Juha ha perso la sua amata consorte, morta annegata in un lago. Alcuni anni più tardi, incapace di superare questa tragedia, vive ancora da solo con la figlia. Il suo incontro casuale con Mona, una dominatrice, modificherà il corso della sua esistenza. [sinossi]

Dogs Don’t Wear Pants. No, i cani sicuramente non indossano pantaloni, neanche nelle distonie visionarie di Jukka Pekka Valkepää. Che strana creatura che diventa il cinema quando a maneggiarlo è questo quarantaduenne cineasta finlandese che apparve quasi dal nulla nel 2008 con il suo esordio Muukalainen (The Visitor per chi non mastica la lingua suomi), presentato alla Mostra del Cinema di Venezia tra le Giornate degli Autori. In quel caso il cuore pulsante era una misterica incursione nella foresta, tra l’onirico e il drammatico. Valkepää sembrava guardare all’underground, ma anche a registi come Philippe Grandieux o il Sébastien Betbeder di Nuage. Poi, dopo più di un lustro di silenzio, venne il momento di They Have Escaped, sempre selezionato alle Giornate degli Autori e più canonico, per quanto animato da un – non troppo gestito – animo belluino e pseudo punk. Ora, dopo altri cinque anni, ecco che Valkepää approda al Festival di Cannes, trovando collocazione per l’ennesima volta in una sezione collaterale. È infatti alla Quinzaine des réalisateurs che è stato possibile imbattersi in Koirat eivät käytä housuja, sarebbe a dire Dogs Don’t Wear Pants, il suo terzo lungometraggio. Un film spiazzante e alla continua ricerca del proprio spazio, come se la struttura cinematografica classica gli impedisse di esprimersi completamente.

Parte infatti come un dramma senza via di scampo, il film. Con uno liquido e in pieno deliquio febbrile Valkepää mostra, ricorrendo a continue e suadenti ellissi logiche e temporali, la vacanza di una giovane coppia con bimbetta in una piccola baita di fronte a un lago. L’amore lascia spazio alla disperazione quando la donna, mentre il marito dorme, si getta in acqua e vi affoga dopo essere rimasta impigliata in una rete da pesca. L’uomo si getta in acqua per salvarla e resta lì, fino a quando non arrivano i soccorsi, sperando di seguire la moglie nell’oltretomba. Con un salto temporale gestito con estrema fluidità la narrazione avanza di molti anni: la figlioletta è oramai un’adolescente, per quanto il continui un po’ a trattarla come una bambina, ma anche come un corpo estraneo. L’uomo, che è un chirurgo, vive solo, masturbandosi odorando la biancheria della moglie. Non ha rapporti d’ eccezion fatta per un collega con cui però chiacchiera solo sul luogo di lavoro. Poi la figlia decide di farsi un piercing sulla lingua, e il la accompagna. Lì, nel seminterrato del negozio, una donna dominatrice soddisfa le voglie proprie e di chi ama farsi sottomettere. Per l’uomo diventerà un’ossessione nel momento in cui si renderà conto che nell’atto del soffocamento simulato riesce a rivivere le sensazione provate nell’acqua del lago tanti anni prima, gli ultimi momenti passati accanto al cadavere della moglie.

Come è facile intuire dalla sinossi, Dogs Don’t Wear Pants vive la propria vita a perdifiato ricorrendo a un cambio continuo ma mai strettamente programmatico dei registri espressivi. Se quindi il tutto sembra di fatto incanalato verso un dramma ponderoso sull’impossibilità di elaborare fino in fondo il lutto, lo scenario si modifica più volte, passando dall’analisi del rapporto -figlia, con la ragazza che sta maturando e sta imparando a emanciparsi dal genitore, fino alla sublimazione del dolore in piacere estatico, per poi andare a lambire i confini della commedia dagli esiti paradossali e prossimi al farsesco – l’uscita serale con una delle professoresse della figlia, che dal ristorante fino ai saluti post tentativo un po’ bislacco di rapporto sessuale non smette mai di ridere a crepapelle ne è un esempio lampante. Valkepää tiene insieme i brandelli di narrazione dimostrando una capacità nella messa in scena non usuale, calcando la mano sul dettaglio macabro quando è necessario o veleggiando verso i territori dello slapstick, non disdegnando però neanche la descrizione il più possibile credibile dell’ambiente.
Quel che ne viene fuori è un pastiche multiforme affascinante, non sempre risolto e non compiutamente chiuso ma ricco di suggestioni, di cambi di marcia, di ribaltamenti della prospettiva. Il suo cinema continua a mancare dello scarto autoriale definitivo, e forse è ancora alla ricerca di una propria collocazione – chissà quanto definitiva – ma l’impressione è che la libertà espressiva di questo cineasta sia materia preziosa, soprattutto in epoche in cui la catalogazione e l’inscatolamento in compartimenti stagni è sempre più frequente. E allora ben vengano registi che ricordano senza vergogna come i cani non indossano pantaloni. Ma sanno ridere sdentati nella notte.

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quinlan.it

 

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By Anam

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