LA CITÉ DES ENFANTS PERDUS [SubITA]

Titolo originale: La cité des enfants perdus
Nazionalità: Francia
Anno: 1995
Genere: Fantascienza, Visionario
Durata: 112 min.
Regia: Jean-Pierre Jeunet, Marc Caro

In un mondo bizzarro, i bambini vengono rapiti dal cattivo Krank (D. Emilfork), che vuole rubare i loro sogni e rallentare il suo processo d’invecchiamento. One (Ron Perlman), il forzuto del circo, vuole liberare il fratellino Denree (Joseph Lucien) e in questo viene aiutato dalla piccola Miette (Judith Vittete). Con lei, One si recherà sulla piattaforma dove Krank vive con la moglie nana Mademoiselle Bismuth (Mireille Moissé) e con sei figli clonati (Dominique Pinon), oltre che con “il cervello” Irvin.

La frase dal film: “Miette…One…morire” “Normale, chi nasce nel ruscello finisce nel porto”

Quel dommage che questo film non abbia ricevuto la giusta attenzione dal pubblico italiano. Piuttosto che scornarmi con il monolitico mainstream che ha leggi di gusto tutte sue, vorrei far notare che “l’insuccesso” di un film parte anche dal titolo, che può più o meno un incentivo per la curiosità del pubblico. Ora, se il titolo originale è La Cité des enfants perdus si può sapere perché l’ineffabile distribuzione italiana ha voluto che il titolo italiano fosse La città perduta? I bambini, i loro sogni e la loro purezza sono il fulcro della storia, e poi sono i bambini ad essere perduti e non la città! Il titolo italiano si presta ad equivoci poiché fa pensare ad un film d’avventura, deviando eventualmente l’interesse di un pubblico non avvezzo a tale genere. Insomma, una scelta demenziale, tipica di una nazione che sembra tenere alla propria lingua solo quando si tratta di tradurre film e titoli, roba che manco al tempo dei Fascisti. Continuiamo così…facciamoci del male. Comunque; nel 1991 i registi Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro presentarono al pubblico il mondo di Delicatessen, una realtà post-apocalittica, grottesca ed oscura così come dolce e amara. A quattro anni di distanza i due non sembrano aver “moderato i toni” dividendo ancor di più il pubblico fra coloro che amano il loro stile e quelli che proprio non riescono a raccapezzarsi fra personaggi strambi, colori accesi, tubi e nebbie. A differenza del 1991 i due cineasti avevano a disposizione un budget molto più sostanzioso, dovuto all’investimento di ben 13 differenti compagnie di produzione, nonché la collaborazione dello stilista Jean-Paul Gaultier per la realizzazione dei costumi. Il risultato? Beh, io faccio parte di quella schiera che rimane ammaliata dall’estetica, dalle luci, dalle scenografie e dal rutilante succedersi di colori e atmosfere: mi è successe con Brazil (1985) e Moulin Rouge (2001) e mi è successo con La città perduta. Questo film è un mondo di fantasie vittoriane con un gusto per gli scritti di Jules Verne (che si incarnano in macchinari arrugginiti, umidi e scombinati). Ma c’è anche Dickens, Fellini, e alti riferimenti all’arte pittorica. Ogni cosa è curata nei minimi dettagli tanto che la scenografia pare puro artigianato. Il tutto è “sacralizzato” da una fotografia eccelsa (verde, gialla, rossa, e che altro?!) firmata da Darius Khondji, ovvero colui al quale si deve molto del successo di Se7en (1995) film per il quale vinse l’Oscar. Lo spazio in cui si muovono i protagonisti sembra immenso e allo stesso tempo claustrofobico, animato da personaggi da circo Barnum (gemelle siamesi, pulci ammaestrate, nani, “ciclopi”, …) che danno vita a un’atmosfera in bilico fra il comico e il macabro.

Il pericolo è che l’estetica del film surclassi la trama ed in effetti all’inizio del film si viene piacevolmente distratti dalle ambientazioni mentre si ha difficoltà ad entrare in sintonia con il racconto. E’ una questione di minuti. Là dove la messa in scena è bizzarra, il racconto si fa semplice come una favola ed i protagonisti incarnano degli archetipi facili da comprendere. Il plot è semplice e solido e la sua morale fa riferimento alla creatività e alla capacità dell’immaginazione di sfuggire il reale, cosa che sembrerebbe riuscire meglio ai bambini (anche se poi, va detto, questi film li fanno gli adulti!). All’interno di questa morale si va ad iscrivere la relazione fra la piccola Miette ed il gigante One, una relazione per certi versi ambigua (che Leon [1994] abbia fatto scuola?), ma che sa evitare toni perversi: in fondo entrambi cercano piuttosto un amore che è vicinanza, calore, famiglia. One è interpretato dall’americano Ron Perlman (forse qualcuno lo ricorderà come il gobbo Salvatore ne Il nome della rosa, 1986) che mette in scena un nerboruto col cuore da bambino. Brava la piccola Vittete che non ha avuto un gran futuro nel cinema. Incisive invece le interpretazioni di Emilfork nei panni di Krank, e quella multipla di Pinon. Emilfork (Il Casanova di Federico Fellini, 1976) interpreta un Krank orribile e tragico che rammenta Max Schreck in Nosferatu (1922). Dominique Pinon, protagonista in Delicatessen (1991), si moltiplica sfruttando i suoi noti manierismi e il suo viso plastico, inscenando gag di gusto retrò (Stanlio e Olio, I tre marmittoni). Comunque, come ho già detto, il film ha il suo punto di forza nella messa in scena e basta guardarne pochi minuti per rendersi conto che alcuni fotogrammi sembrano veri e propri quadri (guardate l’ottava immagine dall’alto).

Guarda anche  BLIND BEAST [SubITA]

Quindi se avete apprezzato il lavoro di Terry Gilliam, Jodorowsky (nella fattispecie Santa Sangre, 1989), in parte Fellini e soprattutto il precedente lavoro di Jeunet e Caro del 1991, non potrete che rimanere incantati da questo piccolo gioiello cinematografico passato in sordina nelle nostre sale. Per me vale la pena acquistarlo per avere un esempio alto e paradigmatico di un certo modo di fare cinema.

Recensione: exxagon.it

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By Anam

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