JUNK HEAD (SubITA)

Titolo originale: Junk Head
Paese di produzione: Giappone
Anno: 2017
Durata: 100 min.
Genere: Animazione, Commedia, Drammatico, Azione, Avventura, Horror, Fantascienza
Regia: Takahide Hori

JUNK HEAD – IL DELL’IO ATTRAVERSO LE MACERIE DELL’UMANITÀ

“Quando la carne decade, quando il mondo diventa un relitto senza spirito, cosa resta dell’uomo? E se ci fosse ancora una scintilla, sepolta tra le macerie, cosa accadrebbe se la trovassimo?”

Takahide Hori ha impiegato sette anni della sua vita per dare forma a Junk Head (2017), e guardandolo, si ha la sensazione che anche noi siamo costretti a impiegarci anni per comprenderlo davvero. È un’opera che sembra scavata nella polvere, scolpita nella desolazione, animata dal soffio disperato di un demiurgo che si rifiuta di accettare la morte della propria specie.

L’UMANITÀ È UN RICORDO?

La trama potrebbe sembrare un classico della fantascienza post-apocalittica:

in un remoto, l’umanità ha ottenuto l’immortalità biologica, ma al prezzo della propria anima. Le emozioni si sono spente, il senso di sé è evaporato. Gli unici che ancora esistono con qualche barlume di vitalità sono gli esseri mutati, ex-umani spediti nelle profondità della secoli prima, ora evoluti in una nuova forma di coscienza. Un esploratore, inviato in queste catacombe industriali, precipita in un mondo di grottesche, figure deformate che sembrano versioni distorte delle nostre ombre. E qui la sua identità si smarrisce, si frantuma, si trasforma. Ma era davvero un’identità, quella che aveva all’inizio? O era solo una maschera?

L’INFERNO MECCANICO DI GIGER E L’UMORISMO COSMICO

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Visivamente, Junk Head è un abominio sublime. Stop-motion artigianale, sporca, tangibile, che sembra un ibrido tra l’estetica biomeccanica di H.R. Giger e la ruggine spirituale di Jan Švankmajer. Ogni dettaglio è materico, vissuto, ogni macchinario sembra uscito da un febbricitante di un dio morente.

Eppure, nel cuore della sua disperazione visiva, Junk Head è incredibilmente ironico. Il suo protagonista si dimena, cade, viene smembrato e ricostruito come un burattino in un teatro assurdo. Siamo di fronte a un umorismo cosmico, dove l’individuo è un giocattolo nelle mani di forze che non comprende, ma continua a ridere, a provarci, a muoversi tra i detriti.

TRA GURDJIEFF, LOVECRAFT E BALLARD

Dietro la facciata e la sua estetica industriale, Junk Head è un’allegoria esoterica. L’esploratore che scende nei bassifondi dell’esistenza è un’iniziazione, una katabasis – la discesa dell’eroe nel mondo sotterraneo, come Orfeo, come Dante, come il mistico che scava dentro di sé per distruggere le illusioni dell’ego.

Le che incontra non sono altro che archetipi della psiche: il guardiano della soglia, il buffone sacro, il mostro che rappresenta la paura primordiale. E nel suo viaggio, il protagonista muore più volte, viene smontato, mutilato, ma sempre ricostruito. Un’eco delle teorie di Gurdjieff, secondo cui l’ deve morire a sé stesso per nascere davvero.

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C’è anche Lovecraft, in questo incubo di civiltà sotterranee che evolvono indipendentemente dalla nostra. E c’è Ballard, nel suo modo di raccontare l’umanità come un detrito di epoche passate, un fossile che ancora si ostina a respirare.

L’ULTIMA DOMANDA

Quando Junk Head finisce, non siamo sicuri di aver trovato una risposta. Perché il film non cerca risposte. Cerca di farci sentire qualcosa.

E quella sensazione è vertiginosa: siamo davvero ancora umani? O siamo già qualcosa d’altro? E se lo siamo, c’è ancora di risalire dalle macerie?

Takahide Hori non ci dice cosa fare. Ma ci lascia un indizio: anche nel mondo più devastato, anche nel più artificiale, la scintilla della coscienza non si spegne mai del tutto.

A noi decidere se seguirla o lasciarla svanire.

Anam

By Anam

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