
Titolo originale: Perempuan Tanah Jahanam
Paese di produzione: Indonesia
Anno: 2019
Durata: 106 min.
Genere: Drammatico, Horror
Regia: Joko Anwar
Maya, insieme alla sua migliore amica Dini, cerca di sopravvivere in città senza una famiglia alle spalle. Ben presto, Maya realizza di poter essere l’erede di una proprietà appartenente alla sua ricca famiglia e decide di far ritorno al suo isolato villaggio d’origine, inconsapevole della maledizione a cui andrà incontro.
E oggi ce ne andiamo in Indonesia, seguendo il consiglio di Erica, e tenendo presente che si tratta forse del terzo, al massimo quarto horror indonesiano di tutta la mia vita, considerando che gli altri che ho visto sono quasi tutti diretti da Timo Tjahjanto. Trattandosi di un’industria cinematografica piuttosto fiorente, la mia ignoranza in materia è abissale e credo che, fino a qualche anno fa, avrei visto un film come Impetigore e non ne avrei parlato per qualche forma di pudore o perché non mi sarei sentita all’altezza; oggi voglio soltanto condividere con voi che mi leggete un horror bellissimo, molto classico nella struttura e nello svolgimento, ma in grado di dispensare mazzate di un certo calibro sul piano emotivo e sul versante gore, dove riserva più di qualche sorpresa raccapricciante e non adatta a chi ha lo stomaco debole. Il che rende tutto molto più complicato perché, sulla carta, Impetigore sarebbe una ghost story.
È infatti il tipico racconto di come il passato, e le azioni turpi ivi commesse, tornino sempre a presentare il conto con gli interessi: Maya (Tara Basro) subisce un’inspiegabile aggressione mentre si trova sul posto di lavoro, un casello autostradale; un uomo, armato di machete, la attacca farfugliando qualcosa a proposito della sua famiglia. Il problema è che Maya la sua famiglia non l’ha mai conosciuta: è vissuta da una zia sin da quando era molto piccola e non ha alcuna notizia sui suoi genitori. Facendo qualche ricerca, viene fuori che le origini della ragazza risiedono in uno sperduto villaggio in culo a bifolcolandia, perché ho imparato che non importa in quale nazione o continente si svolga il film: bifolcolandia è sempre lì che vi aspetta, insieme ai suoi abitanti.
Ora, la nostra Maya è in seri guai economici e l’idea che, ad attenderla nel villaggio, possa esserci un’eredità di qualche tipo (le informazioni raccolte indicano che i suoi genitori erano benestanti, se non proprio ricchi sfondati), la spinge a salire su un pullman, insieme alla sua migliore amica Dini (Marissa Anita), per andare a indagare di persona. Mal ne incoglie a entrambe, perché sul villaggio incombe un’orrenda maledizione di cui la famiglia di Maya è ritenuta responsabile.
Se, come dicevamo, Impetigore in teoria è una ghost story, in pratica è un survival coi redneck in piena regola. Gli elementi del genere ci sono tutti: due ragazze di città che arrivano in un luogo ostile, distante sia geograficamente che soprattutto culturalmente dalla loro idea di consesso civile, la mentalità degli abitanti che è di conseguenza incomprensibile, per noi e per le nostre protagoniste, tutti i campanelli d’allarme sparsi che gridano al massimo del volume di andare via da lì subito, puntualmente ignorati (altrimenti il film finirebbe dopo tre minuti e mezzo), la comunità chiusa e dedita a delle pratiche inquietanti se osservate da lontano, ignobili se viste da vicino, e via così, con un elenco che potrebbe continuare all’infinito e va da Non Aprite quella Porta a Hostel, passando per Wrong Turn. Ma, se tutti questi riferimenti del cinema occidentale sono di sicuro presenti nel film di Anvar, io ci ho visto anche tantissimo di And Soon the Darkness, forse perché la situazione delle due amiche in viaggio è molto simile, forse perché Anvar mutua da Fuest tutto un lavoro egregio sull’atmosfera, che non è esplosiva e repellente come nei film cui di solito viene accostato Impetigore, ma sottilmente tossica, come un gas inalato in piccole dosi che ti porta piano piano alla morte.
Oltre a uno stile di ripresa molto dinamico e di grande personalità, su cui torneremo tra poco, Impetigore si distingue per due caratteristiche principali: la già menzionata atmosfera e i personaggi.
Impetigore parte a razzo, con una sequenza d’apertura che mi ha fatto rischiare l’infarto, e poi si siede e rallenta per una buona mezz’ora in cui, dirà qualcuno, non succede nulla.
In realtà succede il villaggio, che lo so non si dovrebbe dire, ma non riesco a trovare un’altra espressione per rendere pienamente l’idea del modo in cui Anvar costruisce, prendendosi tutto il tempo che gli serve, questa succursale dell’inferno e la fa diventare viva e pericolosa davanti ai nostri occhi, senza neppure battere troppo sul tasto soprannaturale. Ecco, Impetigore è un film che funziona sia che la maledizione sia reale sia che si tratti soltanto di una credenza dei bifolchi, indotta dai due notabili del villaggio, madre e figlio, lui viscido come pochi, lei di una crudeltà senza pari.
Non importa se ci siano i fantasmi vendicativi, non importa se davvero la famiglia di Maya ha dannato il villaggio per sempre: importa solo che le persone ci credano e le nostre due ragazze, cui nel frattempo ci siamo affezionati, si ritrovano a correre dei rischi di cui non hanno alcuna consapevolezza. Mentre noi sì.
C’è una componente abbastanza tipica del survival americano che qui manca del tutto: l’anonimato spinto dei personaggi. Di solito, quando non si tratta direttamente di gente insopportabile che si vuol vedere crepare malissimo, l’attenzione del regista è rivolta tutto alla meccanica della sopravvivenza spicciola, per cui gli attori in campo sono figurine dalla personalità di carta pesta, senza altro scopo che non sia quello di essere inseguiti, braccati e, il più delle volte, defunti.
Un altro motivo per cui Anvar si prende un sacco di tempo invece di far precipitare subito le cose, è darci la possibilità di conoscere Maya e Dini, che non hanno nulla di eccezionale, ma sono incredibilmente vere, com’è vera del resto la dinamica del loro rapporto, i loro scambi di battute, il loro linguaggio, la gestualità, gli sguardi: sullo schermo ci sono due persone che si conoscono da una vita, e non abbiamo alcun dubbio a riguardo, perché chiunque abbia avuto un’amica di lunga data sa che il rapporto con lei è così a ogni latitudine, è universale e, se ben messo in scena, contribuisce in maniera esponenziale alla riuscita del film, soprattutto quando la storia prende una bruttissima piega. Infiniti complimenti, dunque, alle due attrici, ma anche ad Anvar, che è stato capace di scrivere e filmare un rapporto di amicizia femminile così reale e intenso.
Da un punto di vista stilistico, Impetigore è di una pulizia visiva da rifarsi gli occhi, ma è anche pieno di tanti piccoli tocchi di classe che contribuiscono a costruire quella famosa atmosfera di cui cianciamo da ore, e hanno l’ulteriore funzione di disorientare lo spettatore e di spaventarlo senza fare mai uso di jump scare. Anzi, proprio quando ci aspetteremmo l’arrivo di un jump scare, Anvar fa sempre qualcosa di differente, che aumenta il senso di inquietudine e non permette mai di rilassarsi per cinque minuti. Faccio un esempio (niente spoiler, tranquilli): poco dopo essere arrivate al villaggio, Maya e Dini si mettono a dormire nella vecchia casa dei genitori di Maya; c’è una lunga inquadratura fissa sulle due ragazze addormentate, ed è esattamente il tipo di inquadratura che il jump scare te lo chiama, sai che arriverà, te lo aspetti, anni e anni di Warrenverse ti hanno preparato a questo. E invece no, Anvar fa una panoramica e la ripresa fissa diventa una soggettiva di qualcuno che sta guardando le due ragazze, non abbiamo idea di chi, e la nostra unica nozione, dataci dall’interiorizzazione a livello inconscio delle regole basilari della grammatica cinematografica, è che quel qualcuno (o qualcosa) non siamo noi. Impressionante, non trovate?
Ce ne sono a bizzeffe di momenti così, in Impetigore, e ogni volta agiscono in maniera differente sulla psiche suggestionata dello spettatore.
Se proprio devo trovare qualche magagna in un film che quasi ne è privo, è che a un certo punto Anvar ti piazza un lunghissimo flashback/spiegone di cui forse si poteva anche fare a meno, lasciando che sul film gravasse una cappa di ambiguità anche dopo i titoli di coda. In questo modo non c’è spazio per alcun dubbio e, in effetti, il pre-finale un po’ di efficacia la perde.
Ma veniamo ripagati da un epilogo agghiacciante e nero come la morte, quindi questo eccesso di zelo nel volerci spiegare tutto lo perdoniamo, al buon Anvar, che ha realizzato un grande horror per le vostre serate estive.
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