RIGOR MORTIS [SubITA]

Titolo originale: Geung si
Titolo Internazionale: Rigor Mortis
Paese di produzione: Hong Kong
Anno: 2013
Durata: 101 min.
Genere: Horror, Thriller, Visionario
Regia:

Chin Siu-ho è un ex attore, celebre per il ruolo di cacciatore di vampiri, ora caduto in disgrazia a livello lavorativo e familiare. Nessuno scommetterebbe più su di lui ma Chin Siu-ho, deciso a riprendersi dalla miseria, prende in affitto la stanza 2442 in un edificio in rovina apparentemente infestato; sebbene scettico verso i fenomeni sovrannaturali, vuole risolvere da solo il mistero che avvolge quel luogo. Una volta giunto sul posto, Chin Siu-ho dovrà così vedersela con gli altri occupanti del palazzo: un taoista-esorcista, una casalinga traumatizzata da un tragico passato e una vecchietta apparentemente innocua, ma con una bara vuota nell’appartamento. Persone che si riveleranno tutt’altro che normali…

Avevo già adocchiato qualche immagine intrigante di Rigor mortis sulle pagine di Mad Movies e negli articoli su The Babadook veniva timidamente citato come il vincitore ex-aequo del premio speciale della Giuria al Gérardmer Film Festival 2014, premio che per lo meno suscitava il sospetto si trattasse di film in grado di gareggiare sul piano visivo con uno dei migliori esempi di progettazione artistica degli ultimi mesi.

Rigor mortis svetta da quel punto di vista sopra vagonate di film e i suoi parziali fallimenti derivano dalla mancanza di solidità narrativa pur all’interno di un’unica cornice tematica (il lutto o la perdita in varie sue forme), fallimenti non sempre arginabili in un film corale.

L’impressione è che Rigor Mortis sia il risultato dei compromessi di fra l’istanza di recupero e omaggio (del folklore cinese e di Mr. Vampire fin dal titolo originale Geung si fino a parte del cast) e quella di mettere in mostra i propri talenti in un’opera prima da regista.

In precedenza era stato attore secondario nello spettacolare cult Dream Home e attore protagonista e autore della storia di Revenge: a love story (apologo sulla vendetta con morale standard, ma reso meno banale dalla particolare architettura dei piani temporali e da momenti di ferocia drammatica), ma delle sue doti registiche non si sapeva nulla essendosi dedicato negli ultimi anni alla carriera di cantante o di stilista.

Sostenuto da Takashi Shimizu in qualità di produttore (che, escludendo gli anni più recenti della sua carriera, è uno dei pilastri del J-horror), sfodera in un eccesso di voglia di fare una tonnellata di idee visive per ognuna delle sottotrame che dovrebbero essere convogliate verso un’unica risoluzione finale (incerta e aperta a diverse interpretazioni) con il risultato di rendere Rigor Mortis frammentario, una versione compressa di un’ipotetica miniserie televisiva di quattro puntate, in cui deviazioni e sterzate e incursioni verticali sarebbero più accettabili.

In realtà è un’illusione ottica dovuta alla durata del film che costringe a mescolare troppo materiale narrativo trattato con intenzioni creative spesso disomogenee (palette cromatiche, ritmo, inquadrature).

D’altra parte tutto il film potrebbe essere interpretato come un’illusione ottica e, anche se per gli amanti del minimalismo suppongo sia indigeribile, l’assalto sensoriale e le abissali escursioni termiche e ritmiche sono proprio quel che rendono Rigor Mortis un oggetto unico e non solo un estetizzato sguardo al passato, per quanto disorientante e a tratti dispersivo.

La storia di un attore in disgrazia (personale e professionale) che diventa ricettacolo degli spiriti di due gemelle mentre tenta di suicidarsi, e si trova coinvolto in una lotta fra storici cacciatori di vampiri e necromanti che si sfidano a colpi di arti marziali e magia, passa subito in secondo piano rispetto all’ordalia di effetti visivi, dagli effetti speciali, che tentano di non ripercorrere idee classiche (scordatevi, per esempio, capelli neri animati di vita propria, ma vasi sanguigni che vorticano e s’intrecciano), ai contrasti fra scene oniriche verniciate di colori cinerei su cui spicca il rosso del sangue o fra i più tenui colori pastello degli ambienti e degli avventori di un ristorante condominiale a cui vengono conferiti tratti da interzona, attraverso le prospettive ottiche irreali, i costumi o il trucco (fino all’esagerazione di un bambino albino addobbato come J. T. Leroy).

Rigor Mortis è pure quasi privo di humour, un tratto ricorrente nei film di hopping vampires, e innesta sulla storia principale vicende drammatiche e senza redenzione fino all’atto centrale di necromanzia che è come il palo fisso e tetro di una giostra intorno a cui ruotano tutti i personaggi, lo sfondo nero su cui si agitano i pesci di un acquario prossimi a essere divorati, e che viene articolato su scene in cui le luci illuminano carni umane sbiadite, ambienti lignei e polverosi, che costituiscono un feretro incubatore di non-morte, e maschere rituali i cui eleganti elementi geometrici nascondono i dettagli raccapriccianti di un cadavere sfigurato.

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La cupezza e il dolore di quelle scene capovolge ogni volta la dinamicità e il colore delle scene di lotta magica o delle epifanie di entità demoniache creando disappunto più nello spettatore che gode della sottile ironia dei racconti del cacciatore di vampiri o degli aspetti fantastici che in quello che sente che nelle improvvise deviazioni verso toni oscuri si nasconde una minaccia che non potrà essere combattuta a suon di risate e ciotole di riso.

Nella seconda parte del film prende infatti definitivamente distacco dai canoni del genere di riferimento e con una scena clou di sacrificio infantile getta tutto il film nel caos più gelido per poi riscaldarlo con esplosioni pirotecniche.

La miscellanea potente, ipercinetica, sanguinosa e dai toni epici di antichi sortilegi a base di elementi naturali, creature implacabili, torsione di arti umani, rottura evidente di ogni intercapedine fra mondi dei vivi e dei morti (già fragilissime) nonché di ogni legge della fisica non arricchisce l’emotività del sottotesto drammatico che resta schiacciato dalla versione soprannaturale e lisergica degli scontri di The Raid fino a che l’astrattismo visivo prende il sopravvento totale in una metaforica caduta all’Inferno.

Questo aspetto può compromettere il coinvolgimento dello spettatore, più aizzato dalla camera frenetica e fluida o dagli effetti sonori ambientali o dalle panoramiche da vertigine che non dai drammi personali (tanto che il finale, che scompiglia le carte sul tavolo, per quanto elegante sembra posticcio perché per il regista ha maggior valore la ricerca di un effetto shock o la resa efficace degli atti violenti più che sottolinearne l’impatto emotivo, così come al background famigliare del protagonista dedica le scene più brevi e svogliate salvo poi ricordarsene in corner), ma (e torno al discorso dei miei punti deboli) di fronte a immagini di tale coreografica bellezza e a un’audacia visiva e pittorica che si può ritrovare solo in alcuni anime (o nei vostri migliori incubi) non riesco a restare impassibile.

lennynero.wordpress.com

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By Anam

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