FAREWELL TO THE ARK (SubITA)

Titolo originale: Saraba hakobune
Paese di produzione: Giappone
Anno: 1984
Durata: 127 minuti
Genere: Drammatico, Visionario, Sperimentale
Regia: Shûji Terayama

Sinossi:
In un piccolo villaggio giapponese sospeso fuori dal tempo e dallo spazio – un luogo che sembra simultaneamente arcaico, mitologico e postmoderno – giunge un uomo, Aochi, in fuga dal mondo reale e dai suoi fantasmi. Il paese è governato da rituali misteriosi, regole assurde, superstizioni feroci e una comunità chiusa su sé stessa, dove ogni gesto ha il peso di un incantesimo e ogni parola rischia di infrangere un equilibrio ancestrale. Il suo arrivo mette in moto una catena di eventi che destabilizza l’intera comunità, finendo per rivelare l’ipocrisia, il desiderio, il potere della memoria e la fragilità del mito fondativo di quella stessa società.

Recensione:
“Farewell to the Ark” è uno di quei film che ti guardano dentro mentre li guardi, come se il loro senso non fosse contenuto nelle immagini ma nell’effetto che provocano. Terayama costruisce un villaggio che non è un luogo: è una metafora totale, una stanza mentale in cui il tempo non segue le convenzioni e la logica evapora a favore di un simbolismo febbrile, sensuale, contraddittorio. È cinema che non chiede di essere interpretato, ma di essere respirato. E quando entra nei polmoni, brucia.

Il film si apre con un’atmosfera che sembra uscita da un sogno febbrile: visi immobili, gesti ripetuti, riti che non vengono spiegati perché non c’è nulla da spiegare. È come essere scaraventati in un mondo governato da un’antica matematica invisibile, dove ogni oggetto vibra di un’energia oscura. Terayama non ti prende per mano: ti getta nella corrente e ti dice “nuota se vuoi capire”. E questa scelta registica è incredibilmente potente, perché restituisce al cinema il suo carattere iniziatico. Non c’è trama in senso classico: c’è un itinerario interiore.

Aochi, figura liminale, è un catalizzatore. È il corpo estraneo che svela l’assurdo, come se bastasse la presenza dell’Altro per far collassare una comunità compressa da anni di paranoia ritualizzata. Il villaggio è una prigione costruita dalla tradizione e protetta dal mito; l’arrivo dello straniero è l’ingresso del virus che mette in crisi l’immunità culturale. In questo senso il film è anche una riflessione vertiginosa sul concetto di identità collettiva: cosa siamo quando non possiamo più mentire a noi stessi? Cosa rimane di una comunità che si sostiene solo tramite l’occultamento dei propri desideri?

Il linguaggio visivo è sontuoso. Terayama ha sempre avuto questa capacità: trasformare il quotidiano in qualcosa di liturgico. I suoi colori non sono mai semplici colori, sono stati d’animo. Le inquadrature sono pittoriche, ma mai decorative: ogni composizione sembra progettata per far emergere il conflitto tra ciò che è visibile e ciò che è taciuto. C’è una sensualità diffusa, ma non erotica: è la sensualità del mondo in fermento, della materia che pulsa sotto la pelle delle cose, degli oggetti che sembrano trattenere respiri.

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L’assurdo è costante, ma non gratuito. Non è bizzarria fine a sé stessa: è l’unico linguaggio possibile per raccontare un mondo in cui la razionalità non ha mai avuto cittadinanza. Terayama mette in scena un sistema sociale in stato di decomposizione, che cerca disperatamente di preservarsi attraverso la ripetizione ossessiva dei riti. Ma più i riti vengono ripetuti, più la loro fragilità diventa evidente. È cinema come antropologia del delirio.

La presenza di elementi biblici – il titolo non è casuale – diventa ironica, ma anche profondamente tragica. L’Arca non è salvezza: è confinamento. Non è rifugio: è condanna. Qui la redenzione non arriva mai, perché l’unica salvezza possibile sarebbe la fuga dal mito stesso, la distruzione della cornice che tiene in piedi il mondo. Ma i personaggi non sono in grado di farlo. Sono prigionieri dell’idea di appartenenza, della paura del fuori, dell’ossessione per la genealogia e il destino. E questo rende il film intensamente contemporaneo, perché parla della tensione universale tra individuo e comunità, tra libertà e appartenenza, tra memoria e oblio.

Il ritmo è ipnotico, a tratti quasi narcotico. Non c’è accelerazione narrativa, perché ogni scena è un frammento di un mosaico emotivo, non un tassello di trama. Guardare questo film è come sfogliare un libro antico con pagine mancanti: il senso non emerge dalle parole, ma dallo spazio tra le parole. E più il film procede, più si percepisce una sottile crudeltà: Terayama non concede appigli. Vuole che lo spettatore si perda, perché solo nella perdita nasce la vera esperienza.

La parte finale è un crescendo di surrealismo e malinconia, un attraversamento del dolore collettivo e dell’impossibilità di cambiamento. Non c’è catarsi, non c’è risoluzione. Il villaggio implode, ma non evolve. È un universo che si scioglie nella sua stessa incapacità di mutare. E in questo scioglimento c’è qualcosa di magnifico, perché Terayama non crede nella linearità del progresso: crede nella necessità del caos come momento rivelatorio.

“Farewell to the Ark” è una lettera d’addio a tutto ciò che è immobile, a ogni struttura sociale che pretende di congelare il flusso della vita. È una parabola sul desiderio che preme contro le sbarre della tradizione. È un rituale di liberazione mancata. È un film che parla di noi, anche quando sembra parlare di un passato remoto o di una comunità immaginaria.

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Terayama, come sempre, costruisce una poesia visiva che non vuole piacere, non vuole compiacere, non vuole convincere. Vuole disturbare, insinuare dubbi, far emergere contraddizioni. E ci riesce con una grazia feroce, con una lucidità da alchimista della forma. Quando scorrono i titoli di coda, rimane la sensazione di aver attraversato un territorio sacro e profanato al tempo stesso, un luogo dove il mito è stato smontato pezzo per pezzo fino a rivelare il cuore pulsante dell’essere umano: fragile, desiderante, colpevole, irrimediabilmente vivo.

By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

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