
Titolo originale: Tomato Kecchappu Kôtei
Titolo Internazionale: Emperor Tomato Ketchup
Paese di produzione: Giappone
Anno: 1971
Durata: 75 min.
Genere: Fantascienza, Sperimentale, Visionario
Regia: Shûji Terayama
Sinossi:
In un futuro immaginario, i bambini instaurano un regime totalitario dopo essersi ribellati al mondo degli adulti. In questa nuova società dominata dall’infanzia, le regole vengono capovolte, il linguaggio si disintegra, e il potere si manifesta attraverso rituali caotici, giochi crudeli e un’autorità acerba ma assoluta. L’Imperatore, un bambino enigmatico, governa come un simbolo di purezza corrotta. Tra tableaux vivants, improvvisazioni e gesti politici deformati, il film tratteggia un universo dove innocenza e tirannia si fondono in una rivoluzione paradossale.
Recensione:
“Emperor Tomato Ketchup” è un’opera che ti entra negli occhi come un lampo e poi resta lì, depositata come polvere radioattiva. Terayama non costruisce un film, ma un’evocazione: un sogno corrosivo dove l’innocenza si è trasformata in un idolo perverso, e l’immaginazione infantile diventa lo strumento più tagliente per parlare del potere. È cinema-rituale, cinema-invocazione, cinema come atto di sovversione pura.
L’idea di un regime infantile non è una provocazione gratuita: è un modo per far crollare la retorica dell’autorità, per smascherare il ridicolo tragico del mondo adulto. Terayama filma i bambini come fossero antiche divinità che hanno perso la memoria del loro ruolo: li rende officianti di un potere istintivo, acerbo, privo delle maschere razionali della politica. E proprio per questo più inquietante. Qui la rivoluzione non è romantica: è un gioco crudele che si ripete all’infinito, scomposto in immagini che sembrano arrivate da un teatro libero, da una performance notturna, da un luogo dove la logica si è sciolta.
La fotografia granulosa, il bianco e nero vibrante, il montaggio che procede per intuizioni anziché per narrazione creano una percezione straniante. Le scene non sono “capitoli” di una storia, ma apparizioni: icone di un mondo ribaltato. Gli adulti, relegati ai margini come creature senza potere, diventano spettatori della propria decadenza, e il film li osserva con un’ironia feroce, quasi liturgica. La disciplina dei bambini, invece, è un paradosso vivente: una dittatura che non comprende la propria violenza, un ordine costruito su un terreno di fantasie.
Terayama prende il linguaggio politico e lo smonta come un giocattolo rotto, facendone uscire molle, viti, pezzi di plastica che non combaciano. Il risultato è un discorso sulla rivoluzione che non vuole essere capito, ma percepito. Non cerca coerenza: vuole colpire, insinuarsi, destabilizzare. È un film che parla della fragilità del potere, della sua teatralità, del modo in cui si regge su simboli che possono essere distrutti semplicemente cambiando prospettiva.
E poi c’è l’elemento più disturbante: la purezza che diventa tirannia. La figura del bambino-imperatore è un monolite enigmatico, un volto che non sai se considerare divino o inquietante. La sua autorità è assoluta proprio perché incomprensibile: non risponde a logiche adulte, e quindi non può essere contestata con strumenti adulti. È l’immagine perfetta del potere quando smette di essere ragione e diventa mito.
“Emperor Tomato Ketchup” è una meditazione esoterica sulla libertà, sul gioco come forma di rivolta, sul caos che abita ogni ordine. È un film che provoca senza scadere nella stupidità, che usa la trasgressione non come shock, ma come linguaggio. Terayama non vuole creare scandalo: vuole aprire porte interne che di solito teniamo sbarrate. È cinema che rompe, che ferisce, che ti guarda come se stesse leggendo qualcosa che non vuoi confessare.
Un’esperienza più che un’opera, un incubo che sembra ridere mentre ti sfugge di mano.
