EL CASTILLO DE LA PUREZA [SubITA]

Titolo originale: El castillo de la pureza
Nazionalità: Messico
Anno: 1973
Genere: Drammatico
Durata: 110 min.
Regia: Arturo Ripstein

Gabriel è un uomo ossessionato che, al fine di evitare qualsiasi contaminazione con gli spiriti malvagi del mondo (nonostante in realtà egli stesso sia dominato da fantasmi sessuali), si rinchiude con tutta la famiglia nella sua abitazione, evitando che la moglie e i figli abbiano alcun con l’esterno e facendo lavorare tutti, bambini compresi, nell’attività che li mantiene: produrre veleno per topi.

Mister Violence
Gabriel Lima, padre austero e bipolare, è determinato a salvare la propria famiglia dai mali del nell’unico modo che gli sembra plausibile: rinchiudendoli fra le quattro mura della magione di sua proprietà. Lui è l’unico a poter uscire, mentre i tre figli e la moglie possono muoversi solo da una all’altra del “castello”, all’occorrenza puniti per un deciso dal loro dio/aguzzino.

Se vi sembra di aver già sentito questa trama… bé, è così: El castillo de la pureza ha ispirato i titoli più rappresentativi della New Weird Wave greca, Dogtooth di Yorgos Lanthimos e Miss Violence di Alexandros Avranas. Un’informazione che ha iniziato a diffondersi sotterranea dal 2011, anno della candidatura all’Oscar come Miglior Film Straniero di Dogtooth, nel momento in cui il cineasta Arturo Ripstein ha fatto pervenire a Lanthimos il polemico messaggio “I hope we’ll win” (“Spero che vinceremo”). Questo perché la Grecia non ha mai ammesso di essersi ispirata al film di Ripstein, negando persino ogni possibile influenza. Eppure El castillo de la pureza ha fatto la storia recente del cinema messicano, scuotendo all’epoca l’opinione pubblica in virtù della sua aderenza a fatti realmente accaduti. Nonostante ciò – e nonostante il regista sia stato uno dei più brillanti collaboratori di Buñuel – di questo classico del New Mexican Cinema si sono poi curiosamente perse le tracce. All’interno della retrospettiva “A Second Life” promossa dalla Viennale (di cui vale la pena parlare anche a festival finito, visto che proseguirà fino al 30 novembre), la programmazione di El castillo è stata un vero colpo di scena, incastrata fra rifacimenti di più facile inquadramento (i due Mostri di Düsseldorf di Lang e Losey; l’auto-remake hitchcockiano di L’uomo che sapeva troppo) e influenze anomale già sdoganate (Kill Bill volume 1 e Lady Snowblood; Per un pugno di dollari e La del samurai).

Al netto di alcune significative differenze – in Kynodontas la cultura non esiste, mentre nell’opera di Ripstein i ragazzi studiano Goethe e Ellis; il “peccato originale” dell’incesto da un lato rientra nell’abominevole normalità di famiglia, mentre dall’altro è il turning point che fa impazzire il papà-padrone – e di una diversa metaforizzazione (l’opera messicana crea un forte parallelo fra gli abitanti della casa e i topi avvelenati nelle gabbie del laboratorio casalingo), entrambe le pellicole arrivano alla medesima grottesca conclusione: quella del sonno della ragione che genera mostri, nell’ironica creazione di un inferno domestico di un uomo che vuole salvare i suoi cari dall’inferno del esterno. Anche se ora guarderemo con occhi più scettici la natura derivativa di un’onda greca che ci era parsa orginale, inedita, genuina. E che invece era già stata raccontata (meglio) quasi quarant’anni prima.

Recensione: mediacritica.it

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