DOZENS OF NORTHS (SubITA)

Titolo originale: Ikuta no kita
Paese di produzione: Giappone, Francia
Anno: 2021
Durata: 64 min.
Genere: Animazione, Sperimentale, Visionario
Regia: Kôji Yamamura

Una serie di animazioni disegnate a mano, accompagnate da suoni moderni e da musiche di Willem Breuker, descrive paesaggi desolati e da incubo che restituiscono i testi scritti dal regista Koji Yamamura all’indomani del grande terremoto che colpì il orientale nel 2011.

Il regista giapponese realizza un’opera muta sperimentale e metafisica, ai dell’indecifrabile, ma incredibilmente affascinante.

A volte i prodotti di esulano dal mero racconto per immagini e sconfinano nella pura arte. Questo è il di Dozens of Norths (Ikuta no kita) anime ermetico scritto e diretto dal giapponese Yamamura Koji che ci sprofonda in una metafora della realtà post-contemporanea densa di livelli simbolici e cosmico.

Il film animato procede per singole scenette scollegate, ciascuna che esplora, con una silloge di immagini surreali, gli aspetti della contemporaneità. È estremamente difficile delinearne la trama perché, se esiste una sorta di collante tematico di fondo, il film di Yamamura Koji non ha uno sviluppo narrativo proprio, ma è sconnesso, problematico e difficile da interpretare, proprio come la contemporaneità. A ciò si somma la totale assenza di dialoghi, che rende ancora più criptico e anti-narrativo l’insieme.

Dozens of Norths di Yamamura Koji posterL’obbiettivo di fondo di Dozens of Norths d’altro canto è un altro. Si tratta di una metafora surrealista sociale crudele che ci spalanca un universo muto alla parola. La componente verbale si limita alle didascalie: epigrammi sapienziali, a tratti ridondanti, che descrivono con una manciata di parole la controparte visiva, senza però decriptarla in alcun modo. D’altronde, in una dove è assente il significato profondo dell’esistenza, che motivo ci sarebbe di fornire una spiegazione logica all’effimero, all’apparente?

La componente sonora, poi, che esiste seppur scevra dalla parola, è di sottofondo alle azioni e ne acuisce la percezione dolente: nella colonna sonora creata da Willem Breuker, gli accordi di piano malinconici e stridenti si accompagnano a una serie di suoni evocativi, quali sciacquii, rintocchi ripetuti, passi, pioggia, scricchiolii, e pianti di animali che riecheggiano e acuiscono la percezione quasi fisica di un vuoto cosmico.

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Poi c’è l’immagine, vero e visionario fulcro di Dozens of Norths. Il nord è un luogo solitario e insensato. I suoi abitanti conducono esistenze disperate, in perenne attesa. Sono individui rei di una sola, inconsapevole colpa che sconteranno per sempre appesi alla vita da un filo inconsistente, o che si affannano senza requie in compiti inutili.

Ci sono esseri viventi che svaniscono lentamente fagocitati dalla propria invisibilità, o burattinai che, condotti a loro volta da altri burattinai perdono la capacità di muovere le mani e- probabilmente – la loro stessa individualità. Si delineano così apparizioni grottesche – prive di senso come le loro azioni – e incarnazioni paradossali dei mali dell’uomo post-contemporaneo. A circondarli ci sono una congerie di figurazioni simboliche, come la scala sospesa nel cielo, la gabbia, le carcasse di animale, giganti bicchieri e penne a piuma, tutti monumenti all’oblio ripetuti e ricombinati all’infinito nello svolgimento del film.

Ne discende una figurativa, ma non mimetica che attinge dall’iconografia surrealista, o al medioevo fantastico tedesco e nordico, in molti suoi elementi. Tra le suggestioni che fluttuano nel fotogramma troviamo allora composizioni metafisiche alla Magritte di bicchieri giganti e silhouette fluttuanti nel cielo (come in Golconda), entità biomorfe alla Joan Mirò, oppure teste, mani e orecchi mozzati e corpi acefali alla Salvador Dalí, e infine un repertorio demoniaco che rimanda – per esempio – a L’inferno di Lucas Cranach o alla Tentazioni di sant’Antonio di Hieronymus Bosch. Non è escludibile anche un certo influsso l’influsso dei corti lynciani (Alphabet, ad esempio).

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Dozens of Norths di Yamamura Koji - 3Quali siano le fonti, tali allucinazioni sinistre sono rese in pochi tocchi, con un grafismo espressionista già intravvisto in La storia della Principessa Splendente di Isao Takahata, ma qui portato all’estremo. A colorare poi le composizioni surrealiste di Dozens of Norths sono colori spenti, slavati, per cui le figure si confondono con un fondo monocromo a campo piatto e a-dimensionale. Dominano i toni della grafite e dell’ocra, con pochi tocchi di bianco, rosa, arancione, giallo e azzurro, i quali concorrono a creare un minimalismo cromatico sintomo della malinconia che affligge gli uomini del nord.

Questo universo spento è illuminato solo di rado con sovrimpressioni luminose: silhouette in cerca di che assurgono al cielo notturno o scompaiono in buchi luminosi della loro dimensione, concrezioni luminescenti che traducono la malattia dell’anima di una bambina e infine stelle presentate come strappi iridescenti in un cielo grigio sporco. Infatti, non c’è luce, né speranza nella metafisica del disincanto che domina il film di Yamamura Koji.

Dozens of Norths è, insomma, un’opera estremamente sperimentale, tanto densa di simboli da diventare quasi indecifrabile. I suoi personaggi sono figli di un schizofrenico comparabile a Mad God di Phil Tippett. Se in quest’ultimo, però, esisteva ancora un esile filo narrativo che seguiva il protagonista nelle sue disperate e vane peregrinazioni, l’anime di Yamamura Koji abbraccia un’astrazione pressoché completa da ogni pretesa diegetica a favore del simbolismo puro, poiché, in ultimo, in “un mondo che scivola via, solo l’intossicazione rimane”.

ilcineocchio.it

By Anam

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