#DECALOGO

Titolo originale: #Decalogo
Paese di produzione: Italia | Veneto
Anno: 2018
Durata: 35 min.
Genere: Drammatico, Sperimentale
Regia: Giulio Golfieri

 

«Dieu est-il un être?
S’il en est un c’est de la merde.»
(Antonin Artaud)

«Dieu, tu es une putain au sens propre.»
(Peste Noire)

Le cose stanno +/- così: il monoteismo giudaico-cristiano opera attraverso imperativi morali che trascendono la dimensione corporale, prostrandola di fronte a esiziali psico-limitazioni che ne bio-macchinano la postura, rendendola larvale, reietta a se stessa – un pugno di cenere.

#DECALOGO (Italia, 2018, 35′).

Il congegno cinematografico, quale derivato della logica di un secolo e di un continente al cui cuore è Auschwitz, rivela una padronanza del dispositivo_trascendentale, che reinnesta all’altezza del corpo vivente, componendo per suo tramite ciò che solo in maniera superficiale, non rigorosa può definirsi immagine. Sono quindi due gli aspetti su cui si concentra l’opera di Giulio Golfieri, almeno a questo livello: il lavoro sull’ attore, materia bruta, e ciò che è (in)forma(zione) di questo lavoro perché lo(/ne) (in)forma, la  videocamera in senso lato; quest’ultima, in particolare, si fa gradiente e con quella struttura ciò che vedremo essere l’ immagine_come_icona (diapositiva).

«As a voluptuous lemon is devoured by the same light that reveals it, its image passes from the spatial rhetoric of illusion into the spatial grammar of the graphic arts.»

Il lavoro sull’attore, dunque il binomio stesso forma/materia, da cui consegue un’in-formazione non trasduttiva, ricalca, in qualche modo, la velina del cinematrascendentale, eppure è difficile sostenere che #DECALOGO s’inscriva nel francobollo del #cinema_trascendentale, almeno quanto il limone di HollisFrampton fosse distante dalla retorica dello starsystem hollywoodiano, cui pure è stato ingiustamente accostato, anche se nella riduzione di una parodia critica; c’è anzi, a ben vedere, una solida filiazione del lavoro di Giulio Golfieri con quello del regista statunitense, e ciò non solo per i giochi di luce ombra che arabescano l’immagine ma anche, e in un certo senso soprattutto, per la maniera in cui viene trattato il profilmico. Sia in un caso che nell’altro, infatti, ciò che viene ripreso è – come dire – di fronte al dispositivo cinematografico, cui non spetta quindi il mero compito della registrazione quanto quello, più complesso e allo stesso tempo inquietante, della trattenuta: il dispositivo cinematografico trattiene ciò che gli si pone di fronte e lo trattiene proprio perché gli si pone di fronte. Ad un primo livello, quindi, #DECALOGO è dell’ordine della ridondanza, ma una ridondanza particolare, perché quel che ridonda, pur nella sua plasticità, appare in una sorta di precarietà, e #DECALOGO, sempre a questo primo livello, non è altro che una liturgia della precarietà: il lavoro sull’ attore del regista è coerente, se non compatibile, col decreto divino della morale nella sua forma imperativa.

«Se mi domandate, se questi due atti, dell’onesto e del ladro, in quanto reali e causati da Dio, siano egualmente perfetti, io rispondo che, se noi consideriamo i semplici atti in quanto sono causati da Dio, può darsi che essi siano ugualmente perfetti. E se voi mi chiedete ancora, se il ladro e l’ onesto siano ugualmente perfetti e felici, io vi rispondo di no.»

Recuperando la distinzione tra etica e morale, diciamo che la prima è dell’ordine della potenzialità, di ciò che può un corpo, mentre la seconda è un ordine, un comando che proviene dall’esterno, che trascende il corpo per rifarsi a un’idea ideale che è e rimane in quanto postulato. (Approssimiamo in modo barbaro, perché il cortometraggio di Giulio Golfieri riguarda ben altro e dà tutto ciò per scontato. Ora, abbiamo visto che il lavoro del regista consiste, sostanzialmente, in un’operazione trascendentale: il regista non è colui che crea quella che poi va a riprendere ma colui il quale si fa garante della visibilità della realtà; sceneggiatura, lavoro sull’attore, mise en scène &cc. non valgono in quanto sussistano di fronte alla videocamera bensì perché possono essere viste. La loro condizione di possibilità è dell’ordine della manipolazione, dell’informazione quale messa in forma… e in ciò il giudizio del regista è un giudizio estetico poiché in/deforma l’αἴσθησῐς, la sensazione dello spettatore e in ciò il giudizio del regista è equipollente al giudizio divino.

[J’ai de suite perçu c’monde | comme un rectum abyssal | où fister tes fils, tes créatures, Ô Domine, | juste pour l’plaisir sale pourriture | de les dominer, | était de toutes les nourritures | la plus exquise et raffinée. | Ici-bas rien, ni bien, ni mal, | juste les lois fatales du règne animal | et l’arbitraire et le hasard et le désert | où les anges mangent la fange sous le ronron des bulldozers.]

Come si vede, non si tratta di identificare il regista con un’ divina; semmai, attraverso il cinema, derivare un’esistenza, sia anche intellettuale o sensuale, da un atto trascendentale. Non solo il bene è in quanto idea trascendente ma anche questa morale è efficace, cioè produttrice di effetti, solo e soltanto nella misura in cui è letteralmente condotta da un atto trascendentale: se sono cattolico, posso agire contro un comandamento, perché sono il corpo che possiedo e possiedo il corpo che sono, ma la mia cattolicità si esprimerà in sentimenti tanto diversi quanto quelli che seguirebbero dalla stessa azione, dallo stesso gesto attuato da un corpo non ingabbiato nella morale cattolica. Alla stessa maniera, la possibilità di un giudizio o di un’emozione da parte dello spettatore è legata a quell’atto trascendentale che compie il regista, il quale non solo fa essere ma, soprattutto, fa vedere, garantisce la visibilità qualcosa. Ciò che quindi pensa e sente lo spettatore è fondamentalmente e strettamente legato non tanto a ciò che il regista fa essere ma a come lo fa vedere (per questo non c’è niente di peggio di un regista cattolico, come il cinema di Rossellini).
Eppure, qualcosa manca. C’è uno scarto. Uno scarto che non è propriamente una parodia.

Guarda anche  KRASUE: INHUMAN KISS [SubITA]

In effetti, sarebbe davvero difficile conciliare la consapevolezza del trascendentale in Giulio Golfieri con quell’affare pretesco che è il cinema trascendentale. La frammentarietà stessa dell’opera lo dice. Cosa dice? dice di un’unità, qual è appunto quella dell’opera in quanto tale, che si frammenta, si disgrega. L’unità_divina del cortometraggio è in sé una diaspora demoniaca. L’essere 1, cioè, non viene posto come limite ma è sulla via mediana: non è l’apice, ma stage, interludio e come tale deve essere oltre/trapassato.
#DECALOGO è un’opera che è assenza d’opera o, ed è lo stesso, #DECALOGO è il rivelarsi del nascondimento dell’opera #DECALOGO.
Che ne è, allora, della sua immagine? perché questa sensazione di latenza, così poco consona al cinema trascendentale, in cui tutto ciò che viene mostrato deve essere visto un po’ come nel confessionale del prete tutto ciò che è stato fatto deve essere detto? perché, appunto, non si tratta di cinema trascendentale.

[Mais le nommé christ n’est autre que celui | qui en face du morpion dieu | a consenti à vivre sans corps, | alors qu’une armée d’hommes | descendue d’une croix, | où dieu croyait l’avoir depuis longtemps clouée, | s’est révoltée, | et, bardée de fer, | de sang, | de feu, et d’ossements, | avance, invectivant l’Invisible | afin d’y finir le JUGEMENT DE DIEU.]

Lontano dal giudizio divino, il film di Giulio Golfieri pone in essere un’ immagine cinematograficamente idiosincratica, perché frattale e frammentaria… un’icona, quindi una diapositiva. La sua forza risiede in questo. L’ordine imposto dalla videocamera viene superato da tutte le parti. La tenebra, che la fa da padrona, non nasconde, ma porta alla luce, e in questo portare alla luce si manifesta quella latenza che invita lo sguardo ad attraversare, piuttosto che a fissare, l’ordine, l’essere 1 imposto trascendentalmente dalla videocamera (διάpositiva: il positivo nell’attraverso). In termini rozzi, il vettore di #DECALOGO cessa di essere la videocamera, com’è nel cinema trascendentale, per divenire lo sguardo dello spettatore, il quale, a sua volta, si compone di tutti quei frammenti (fotogrammi, scene, capitoli) che altro non sono se non le derivate parziali di una funzione (l’essere 1) che, però, non solo non può valere (né essere: cioè, non ha proprio senso) al di là di esse ma nemmeno si manifesta se non nella latenza dello sguardo che le oltre/trapassa (διάpositiva: la posizione dell’attraverso & l’attraverso come posizione).

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By Anam

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