Titolo originale: Chime
Paese di produzione: Giappone
Anno: 2024
Durata: 45 min.
Genere: Thriller, Horror
Regia: Kiyoshi Kurosawa
Presentato in Berlinale Special, della Berlinale 2024, Chime è un mediometraggio di Kiyoshi Kurosawa che in 45 minuti riesce a creare un saggio sul j-horror, su come generare ansietà, tensione, paura nello spettatore, calibrando alla perfezione ellissi o campi controcampi e campi senza controcampi.
Non bruciate quel soffritto di cipolla
Matsuoka è un insegnante in una scuola di cucina occidentale. Un giorno, uno studente, Tashiro, dice qualcosa di strano durante la lezione: «C’è un rumore, è come un carillon. Qualcuno mi sta mandando un messaggio». Un altro giorno, lo studente dice: «Metà del mio cervello è stato sostituito da una macchina», e compie un’azione drastica per dimostrarlo. Alcuni giorni dopo, Matsuoka sta insegnando a una studentessa, Akemi, che è alle prese con un pollo. Un disagio incomprensibile lo coglie. Sia a scuola che a casa, uno strano terrore comincia a serpeggiare nella sua esistenza… [sinossi]
Nato come prodotto per il lancio di una nuova piattaforma dai contenuti innovativi, la Roadstead (che inaugura il sistema di DVT, digital video trading, dove si può acquistare un film in streaming ed eventualmente cederlo a terzi come se si trattasse di un supporto fisico di homevideo) Chime è un mediometraggio di Kiyoshi Kurosawa presentato in anteprima alla Berlinale 2024, in Berlinale Special, e poi disponibile solo in DVT, senza distribuzione nelle sale. In 45 minuti il grande maestro del j-horror confeziona come un saggio su come generare tensione, inquietudine, paura nello spettatore. Siamo nella città di Kobe, in un’ambientazione metropolitana moderna e connotata dal passaggio dei treni, spesso esibito nel film anche come effetto sonoro. Nella migliore tradizione del cinema nipponico, i treni simboleggiano il progresso molto avanzato della nazione. Kurosawa stacca solo un momento da questa dimensione urbana asfissiante, quando mostra un personaggio che attraversa un ponte pedonale su un fiume, dando così spazio all’elemento acquatico che è una firma per il regista. E questo attraversamento è come un momento di pausa: seguito in real time, cosa anomala per qualsiasi altro regista e dirompente in un film in cui tutto è centellinato.
Il film è ambientato in una scuola di cucina occidentale focalizzata in quella francese. Un contesto decisamente à la page: i ristoranti francesi sono stati i primi di cucina straniera a diffondersi in Giappone all’epoca della bolla economica. Anche il film supremo sulla cucina, Tampopo, proprio di quegli anni, ironizza su quella moda con un’esilarante scena al ristorante francese. Ancora una volta Kiyoshi Kurosawa tratteggia una società giapponese rampante, improntata alla ricerca del successo economico. Vediamo ogni tanto l’insegnante di quella scuola gastronomica, Matsuoka, discutere di futuri business, aperture di un ristorante in città, con altri affaristi al bar. Del resto, il mondo gourmet è una moda ovunque. Il sogno del figlio dell’insegnante invece è quello di investire un capitale nel settore delle costruzioni.
In questo mondo di arrivisti, Kiyoshi Kurosawa sguinzaglia i suoi meccanismi di disturbo, i suoi fantasmi che minano allo scardinamento di quel mondo perfetto e ordinato. È una società da Un giorno di ordinaria follia quella descritta nel film, dove uno screzio sul modo di tagliare un pollo, o sul soffritto di cipolle lasciato bruciare senza rimestare, può innescare sviluppi estremamente drammatici. In tal senso Chime è un campionario della maestria di una regia che riesce a orchestrare e calibrare tutto fino all’ultima virgola. Partiamo dall’idea di mostrare o non mostrare, centrale nel genere come insegna Polanski in Rosemary’s Baby che fa intravedere solo gli occhi, per un breve istante, del bambino demoniaco. Inizialmente Kurosawa non fa vedere il fantasma, ovvero la figura di Akemi che appare nonostante sia morta. La vede Matsuoka e noi vediamo lui attraverso la soggettiva di lei secondo quella vecchia pratica, molto usata per esempio da Dario Argento nel suo primo cinema, di far vedere con gli occhi dell’assassino/mostro/villain per non far vedere il volto dell’assassino/mostro/villain. Un campo senza controcampo, cui a breve segue una scena con il cuoco che parla con un altro personaggio resa con una panoramica a schiaffo, come a bandire temporaneamente la pratica del campo/controcampo che invece è utilizzato altre volte nel film. Magistrale la prima scena di vita famigliare, quella di una cena che dovrebbe essere rilassata, in cui si mangia giapponese, delle piccole e semplici portate usando le bacchette, mentre nella scuola di cucina si usano le posate occidentali. Senza che sia finita la cena la madre si alza per buttare interi sacchi di lattine d’alluminio, altro simbolo del consumismo, una sua ossessione che si ripeterà nel film, generando anche fastidiosissimi effetti sonori.
Con l’uso del suono Kurosawa mostra la sua maestria. Tolto completamente in alcuni attimi del film, come nella scena allo specchio, per poi deflagrare nella scena finale. Matsuoka, sempre più angosciato e con la paura della sua stessa ombra, esce dalla casa e una musica terrificante erompe. Non sta succedendo nulla, non ci sono situazioni di pericolo visibili, eppure la tensione è alle stelle. L’effetto è anche accresciuto dall’uso del 16mm, solo per questa scena, in un film complessivamente in digitale. Kurosawa dimostra di saper generare emozioni a comando, con un suono che è come quel carillon di cui parlava lo studente un po’ strano, usato come il fischietto per far partire qualcosa, in questo caso scatenare il terrore.
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