CHAINSAWS WERE SINGING (SubITA)

Titolo originale: Chainsaws Were Singing
Paese di produzione: Estonia
Anno: 2024
Durata: 117 min.
Genere: Horror, Satirico, Grottesco, Fantastico, Musicale
Regia: Sander Maran

Sinossi:
In un villaggio sperduto tra foreste umide e tronchi in perpetua decomposizione, una bizzarra epidemia scuote la comunità: le motoseghe cominciano a “cantare”, producendo suoni e vibrazioni che sembrano provenire da un altro livello della realtà. Gli abitanti, prima incuriositi, poi terrorizzati, si dividono tra chi vede in questo fenomeno un presagio apocalittico e chi invece lo interpreta come una forma di liberazione spirituale. Nel caos crescente, un gruppo di personaggi eccentrici – boscaioli sovreccitati, scienziati complottisti, musicisti falliti e fanatici dell’occulto – tenta di scoprire l’origine di questa sinfonia meccanica che sta alterando il comportamento umano, risvegliando desideri sopiti e scoperchiando segreti che la comunità aveva seppellito nel silenzio della foresta.

Recensione:
Ci sono film che non cercano di imporsi con la forza di un concetto, ma con una vibrazione, un rumore di fondo che ti seduce lentamente. Chainsaws Were Singing appartiene a questa famiglia di opere anomale, a metà strada tra il delirio artigianale e la visione metafisica, tra il trash consapevole e la riflessione nascosta sotto strati di legno segato e risate isteriche. Sander Maran costruisce un film che sembra nato da un incubo febbrile, un sogno umido di petrolio, resina e follia, ma dietro la patina grottesca c’è una meditazione sorprendente sulla fragilità umana e sul modo in cui il rumore – quello vero, quello che entra nel corpo – può disarticolare un’intera comunità.

Non è un film che imita: è un film che pulsa. Le motoseghe che “cantano” non sono un semplice gimmick, ma un simbolo di qualcosa che ritorna ciclicamente nella storia dell’uomo: l’irruzione del caos nel quotidiano. È come se Maran suggerisse che la modernità, con tutti i suoi giocattoli meccanici e la sua pretesa di controllo, non sia altro che una maschera fragile, pronta a cadere nel momento esatto in cui un oggetto banale – una motosega, appunto – comincia a comportarsi come un emissario di un’altra dimensione. E il bello è che il film non cerca mai di spiegare troppo: accenna, insinua, sussurra attraverso il metallo vibrante, lasciando che lo spettatore colmi gli abissi.

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La fotografia, volutamente sporca e saturata, costruisce un mondo che sembra intrappolato tra un inverno eterno e una febbre collettiva. La foresta non è semplice sfondo: è un organismo vivo, oscuro, che osserva e trattiene. Ci si sente quasi spiati, come se ogni tronco fosse un testimone silenzioso della degenerazione degli uomini. Questa atmosfera vegetale, rigogliosa e mortifera al tempo stesso, diventa complice di una narrazione che non procede in linea retta ma si espande, si ramifica, si frantuma in episodi dove il grottesco e il mistico si accarezzano senza pudore.

Maran ha un talento raro: sa creare delirio credibile. Non si limita al “weird” come estetica, ma lo usa come linguaggio. Molti dei personaggi sembrano usciti da un fumetto disturbato, eppure mantengono una verità emotiva: sono fragili, rotti, storditi dal rumore del mondo, e quando le motoseghe iniziano a cantare, non fanno altro che cedere a ciò che covavano da anni. L’epidemia sonora diventa una metafora della dissonanza interiore, delle crepe che ognuno porta dentro, delle pulsioni che l’ordine sociale tiene a bada finché può. Ogni ronzio, ogni vibrazione è un richiamo: all’istinto, alla libertà, alla distruzione.

C’è anche una componente esoterica, sotterranea, mai dichiarata apertamente ma onnipresente. Il canto delle motoseghe sembra quasi un linguaggio, una preghiera invertita, un mantra meccanico in grado di risvegliare ciò che giace sotto i piedi degli abitanti. Nei momenti più visionari, il film suggerisce che la natura stessa stia comunicando attraverso le macchine, come se il bosco avesse deciso di usare il ferro e il carburante per farsi finalmente ascoltare. È un’idea affascinante, che spezza il confine tra tecnologia e mito, tra umano e selvatico.

La satira è graffiante, mai gratuita. L’umanità dipinta da Maran è buffa, disperata, ridicola e tragica. E proprio perché è così terribilmente umana, la sua caduta nel caos risulta ancora più credibile. Il film procede a ondate: momenti di comicità assurda si spezzano contro scene di inquietudine pura, creando un ritmo che ricorda una ballata distorta, una melodia stonata che ti rimane nelle ossa. Non c’è una vera catarsi, perché Chainsaws Were Singing non cerca redenzioni. È un film sul rumore che smaschera, che scava, che rivela.

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Alla fine ci si accorge che non era un’opera sul soprannaturale, ma sul naturale che torna a reclamare spazio dentro di noi. La motosega che canta è un cuore che batte fuori tempo. È l’entropia che si traveste da musica. È un richiamo all’origine, alla nostra incapacità di convivere con ciò che è più grande, più oscuro, più primitivo di noi. È un film che ti lascia addosso un’energia strana, quasi elettrica, come se anche tu avessi ascoltato quella canzone metallica e ora portassi dentro un tremore, un piccolo disordine che continua a vibrare sotto pelle.

By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

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