
Titolo originale: Carmilla
Paese di produzione: Regno Unito
Anno: 2019
Durata: 94 minuti
Genere: Drammatico
Regia: Emily Harris
Sinossi:
In una remota tenuta isolata, immersa in un paesaggio verde e apparentemente immobile, la giovane Lara vive un’adolescenza sospesa tra disciplina, noia e solitudine. L’arrivo improvviso di Carmilla, una ragazza misteriosa sopravvissuta a un incidente, rompe l’equilibrio artificiale della casa. Tra le due nasce un legame intimo e ambiguo, fatto di silenzi, sguardi e attrazioni non dichiarate. Mentre la presenza di Carmilla diventa sempre più centrale, Lara comincia a percepire una trasformazione interiore che sfugge al controllo della famiglia e alle regole imposte, portandola verso un risveglio tanto desiderato quanto inquietante.
Recensione:
Carmilla di Emily Harris è un film che lavora per sottrazione, per rarefazione, per assenza. È una rilettura radicale del mito vampirico, ma soprattutto una dichiarazione di poetica: qui il vampiro non è un mostro, non è un predatore spettacolare, non è nemmeno una metafora gridata. È una presenza. Un catalizzatore. Un corpo che fa emergere ciò che era già latente, represso, inascoltato.
Il film si muove in uno spazio sospeso, quasi fuori dal tempo. Non c’è urgenza narrativa, non c’è tensione costruita secondo i canoni del genere. Tutto avviene lentamente, come se il mondo stesso stesse trattenendo il respiro. Questa scelta non è un vezzo estetico, ma una presa di posizione: Carmilla non vuole intrattenere, vuole insinuarsi. Vuole che lo spettatore si adatti al suo ritmo ipnotico, che accetti il silenzio come parte integrante del racconto.
La regia di Emily Harris è controllata, minimalista, ma mai fredda. Ogni inquadratura sembra studiata per suggerire una distanza emotiva che lentamente si riduce. Gli spazi della casa sono ampi ma soffocanti, ordinati ma privi di calore. La famiglia di Lara incarna una forma di autorità gentile ma opprimente, fatta di buone maniere, di attenzioni superficiali, di regole non negoziabili. In questo contesto, Carmilla non arriva come una minaccia, ma come un’anomalia viva, un errore nel sistema.
Il rapporto tra le due protagoniste è il vero cuore pulsante del film. Non viene mai esplicitato in termini definitivi, e proprio per questo risulta potente. Il desiderio non è mai dichiarato, ma aleggia costantemente nell’aria, come un segreto condiviso che non ha bisogno di parole. Harris filma il corpo femminile senza voyeurismo, senza compiacimento, restituendogli una dimensione sensibile, vulnerabile, autentica. La scoperta dell’altro coincide con la scoperta di sé, e questo processo è rappresentato come qualcosa di delicato ma irreversibile.
Il vampirismo, qui, è quasi del tutto astratto. Non interessa il sangue, non interessa la trasformazione fisica, non interessa la mitologia. Ciò che conta è l’idea di contaminazione emotiva. Carmilla non succhia la vita di Lara: la risveglia. La spinge a percepire il proprio corpo, i propri desideri, la propria autonomia come qualcosa di reale e non più negoziabile. In questo senso, il film è profondamente politico, pur senza mai adottare un linguaggio esplicito o militante.
La colonna sonora è ridotta al minimo, spesso assente, lasciando spazio ai suoni ambientali, ai passi, al vento, ai rumori della casa. Questo silenzio amplifica ogni gesto, ogni sguardo, ogni minima variazione emotiva. Lo spettatore è costretto a osservare, ad ascoltare, a riempire i vuoti. È un cinema che chiede partecipazione attiva, non consumo passivo.
Carmilla parla di adolescenza, ma non nel senso canonico del termine. Non c’è ribellione esplosiva, non c’è rottura violenta. C’è una presa di coscienza lenta, dolorosa, fatta di piccoli scarti interiori. Lara non diventa un’altra persona: diventa finalmente se stessa, e questo passaggio è rappresentato come qualcosa di profondamente destabilizzante per l’ordine familiare e sociale.
Il film dialoga apertamente con la tradizione gotica, ma la svuota dei suoi elementi più iconici per concentrarsi sull’essenza: l’alterità come minaccia all’ordine, il desiderio come forza destabilizzante, la casa come luogo di controllo anziché di protezione. In questo senso, Carmilla è più vicino a un cinema sensoriale e introspettivo che a un horror tradizionale. È un film che non spaventa, ma inquieta, perché mette in discussione ciò che diamo per scontato.
Il finale non cerca spiegazioni, non offre risposte rassicuranti. Rimane aperto, ambiguo, coerente con tutto ciò che è venuto prima. Non importa sapere “chi” sia davvero Carmilla. Importa capire cosa ha smosso, cosa ha rotto, cosa ha reso impossibile tornare indietro. Ed è proprio in questa impossibilità che il film trova la sua forza più grande.
Carmilla è un’opera fragile e determinata allo stesso tempo. Un film che rifiuta il clamore, che sceglie il sussurro invece del grido, e che proprio per questo lascia una traccia persistente. Non è un film per tutti, e non vuole esserlo. È un’esperienza intima, quasi segreta, che parla a chi è disposto ad ascoltare ciò che emerge nei silenzi.
