CANIBA (SubITA)

Titolo originale: Caniba
Nazionalità: Francia
Anno: 2017
Genere: Documentario
Durata: 98 min.
Regia: Verena Paravel, Lucien Castaing-Taylor

Io chi sono?

Riflessione sullo sconvolgente significato del cannibalismo nell’esistenza umana, alla luce della vicenda del giapponese Issei Sagawa e del suo inquietante rapporto con il fratello Jun…

Va senz’altro annoverato tra i titoli più discussi di 74 il nuovo film di Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor, Caniba, selezionato in Orizzonti. I due, già autori di Leviathan, hanno incontrato infatti l’autore di uno degli atti più agghiaccianti degli ultimi decenni, il giapponese Issei Sagawa che nel 1981 a Parigi uccise, mangiò (arrivando a toglierle, si dice, fino a sette chili) e fece a pezzi una sua collega d’università, l’olandese Renée Hartevelt.
Dichiarato folle, Issei Sagawa è stato scarcerato dai francesi solo un paio d’anni dopo il suo efferato delitto e, da allora, è tornato in Giappone, dove tuttora vive a piede libero. E dove, nel corso dei decenni, ha partecipato a un programma televisivo (un programma culinario, basato quindi su un’associazione d’idee particolarmente macabra), ha recitato in diversi film porno, ha scritto diversi romanzi e ha raccontato nel dettaglio il suo gesto in un manga.

I due registi entrano in casa dell’assassino, dove lo troviamo in compagnia del fratello Jun e lasciano che i consanguinei dialoghino tra di loro, con – tendenzialmente – l’idea che l’uno interroghi l’altro sull’episodio che lo ha reso tragicamente celebre. Ma, da un lato, Issei non è molto lucido – forse soffre di demenza senile, comunque è costretto alla quasi-immobilità -, dall’altro, pian piano il fratello comincia a diventare persino più inquietante di lui. Si scopre infatti che Jun è dedito ad atroci tendenze sadomasochiste, tra cui ad esempio quella di appendersi legato a del filo spinato lungo tutto il corpo; e addirittura a tratti viene il sospetto che invidi la raggiunta da Issei. Forse, anzi, gli invidia non semplicemente la notorietà, ma addirittura il ‘coraggio’ omicida che questi ha avuto nel far esplodere tutte le sue pulsioni.
Se di Jun non si riesce infatti a risalire alla radice delle sue perversioni, ciò invece è possibile paradossalmente proprio per Issei, che – a tentoni e con lunghe pause – spiega come abbia sempre sentito che il massimo raggiungimento dell’eccitazione fosse per lui quello di mangiare la desiderata e che ciò gli viene forse da un orribile trauma infantile: il racconto di un aborto spontaneo avuto dalla madre che, cadendo dalle scale di un supermercato, finì per spargere a terra pezzi di feto e sangue. E Issei aggiunge che, al ricordo delle vivide parole della madre, ha sempre sentito che quel spezzato, disarticolato, frantumato fosse proprio il suo.
Mangiare l’altro per mangiare – simbolicamente – anche se stesso, il principio del piacere che si identifica con il principio del dolore, auto-antropofagia e auto-annientamento: il binomio tra eros e thanatos arriva qui a livelli inconcepibili e rimanda all’ancestralità dell’uomo pre-civilizzato, di quell’uomo ancora incapace di distinguere tra processo esogeno ed endogeno.

Con tutto ciò, ovviamente, in Caniba non si vuole minimamente giustificare il gesto di Issei, ma piuttosto si vuole provare ad avvicinarsi alla sua mente, cercando di interrogarne le pulsioni.
In tal senso la messa in scena di Paravel e Castaing-Taylor è forse in apparenza scontata – primissimi piani, dettagli dei volti dei due fratelli e in particolare della bocca di Issei che mastica in maniera inquietante, dei fuori fuoco a tratti molto evidenti a tratti meno, assenza assoluta di contesto – ma è portata avanti in maniera così radicale e coerente che è impossibile criticarla. Ed è impossibile pensare che fosse praticabile trovare una soluzione più esatta di questa.
Issei e Jun ci appaiono in quanto lacerti di corpo, di volto, ‘fatti a pezzi’ dal cinema con l’intenzione di suggerirci che un’interezza è allo stesso tempo irrealizzabile come inaccettabile. Non si può comprendere fino in fondo il nella sua complessità visivo/percettiva e psicologica, ma si può provare a guardarlo in faccia – sia pur mai frontalmente e a figura intera. Anzi, si deve provare a guardare, si deve provare a costruire uno sguardo anche intorno agli orrori più infamanti; è l’obbligo del cinema.
E infatti, secondo questa linea, non ci pare così diverso da Caniba il recente film dedicato alla segretaria di Goebbels, A German Life. Anche lì ci si affacciava sull’orrore e anche lì ci si muoveva sul limite estremo del patto di fiducia tra documentarista e oggetto d’osservazione. Un limite che ci pare che Caniba, così come accadeva per A German Life, non oltrepassi. Caniba non arriva cioè alla pornografia del quanto piuttosto alla sua analisi per forza di cose oscura, faticosa e claudicante, al turbamento che emerge nel momento in cui si tenta di svelarlo.

Guarda anche  RADIANCE [SubITA]

Quando poi viene sfogliato il manga in cui Issei ha già messo in scena il suo atto, ci si ritrae orripilati. Perché in quel caso, su quelle tavole a fumetto l’identificazione tra l’omicida e la macchina narrativa è totale, non c’è distinzione. Eppure, anche in quel momento, si avrebbe voglia di sfogliare ancora un po’ di più, prigionieri di un processo irreversibile ed estremo di paura e desiderio: paura di vedere e desiderio di guardare, in un circolo vizioso probabilmente senza fine.
E poi, quando la fine di Caniba effettivamente arriva, si resta ulteriormente allibiti di fronte all’apparizione di una che ha cominciato a prendersi cura di Issei e gli racconta delle storie di zombie e di cannibalismo. Lui ormai è totalmente inerte, ma ha ancora la forza per dire che finire la sua vita in quel modo gli appare un inaspettato miracolo. E questo forse è il più demoniaco lieto fine che si sia mai visto al cinema.

Recensione: quinlan.it

 

 

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By Anam

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