CAFARD (SubENG)

Titolo originale: Cafard
Paese di produzione: Belgio, Francia, Paesi Bassi
Anno: 2015
Durata: 76 minuti
Genere: Animazione, Drammatico, Guerra
Regia: Jan Bultheel

Sinossi:
Durante la Prima guerra mondiale, Jean Mordant, lottatore professionista ed ex campione, si arruola nell’esercito belga insieme al figlio adolescente. La loro partenza per il fronte africano e poi europeo è segnata fin dall’inizio da una sensazione di dislocazione e di incubo imminente. Mentre il conflitto avanza, la guerra si manifesta non solo come violenza fisica, ma come frattura morale e psicologica. Cafard segue questo viaggio attraverso territori devastati e coscienze spezzate, raccontando la perdita progressiva dell’innocenza, della patria e persino dell’identità, in un mondo dove la brutalità diventa norma e la disumanizzazione un linguaggio quotidiano.

Recensione:
Cafard è uno di quei film che non cercano lo spettatore: lo respingono, lo mettono alla prova, lo costringono a rimanere. Jan Bultheel realizza un’opera che usa l’animazione non come filtro o alleggerimento, ma come strumento di radicalizzazione dello sguardo. Qui l’animazione non è mai decorativa, mai consolatoria. È una lama. È un dispositivo che permette di mostrare ciò che il cinema dal vero spesso addolcisce o rimuove: la guerra come deformazione totale dell’umano.

Il tratto grafico è la prima dichiarazione di intenti. I personaggi sono caricaturali, sproporzionati, quasi grotteschi, ma mai ridicoli. Sono corpi già corrotti, già segnati, come se la guerra li avesse anticipati prima ancora di cominciare. I volti sembrano maschere rigide, incapaci di esprimere emozioni complesse, ed è proprio in questa fissità che si annida l’orrore. Cafard suggerisce che la guerra non distrugge solo i corpi, ma anche il linguaggio emotivo, riducendo l’essere umano a una funzione, a un ruolo, a una silhouette che obbedisce.

La scelta di ambientare parte del racconto nel fronte africano è centrale e tutt’altro che neutra. Bultheel mette in cortocircuito il mito della guerra europea “civilizzata” con la brutalità coloniale, mostrando come la violenza non conosca gerarchie morali. Il colonialismo emerge come un’estensione naturale del conflitto, non come un’eccezione. I soldati bianchi, i mercenari, i corpi africani sacrificabili: tutto viene messo sullo stesso piano di degrado etico. Non c’è eroismo, non c’è missione. C’è solo una macchina che divora tutto ciò che incontra.

Jean Mordant è un protagonista tragico nel senso più classico del termine. Il suo passato da lottatore, il suo corpo massiccio, la sua forza fisica diventano progressivamente inutili. In guerra non c’è spazio per la forza individuale: conta solo la capacità di sopportare, di obbedire, di non pensare. Il rapporto con il figlio è il vero cuore del film, ma è un cuore malato, destinato a spezzarsi. Il passaggio di testimone tra generazioni non avviene attraverso l’insegnamento, ma attraverso il trauma. Il figlio non eredita valori, ma cicatrici.

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Cafard è attraversato da una misoginia strutturale che il film non giustifica né attenua, ma espone come parte integrante del mondo che racconta. Le donne sono oggetti, simboli, corpi violati o assenti. Non c’è spazio per una rappresentazione equilibrata perché il film non parla di un mondo equilibrato. Questa scelta è scomoda, disturbante, e volutamente priva di redenzione. Bultheel non offre appigli morali: mostra un sistema in cui la violenza è normalizzata e interiorizzata.

L’animazione permette al film di scivolare continuamente tra realtà e allucinazione. Alcune sequenze sembrano provenire da un incubo febbrile, altre da una memoria distorta. Il confine tra ciò che accade e ciò che viene percepito è volutamente instabile. In questo senso, Cafard è anche un film sulla psicosi bellica, sul modo in cui la guerra altera la percezione del tempo, dello spazio e della responsabilità. Tutto diventa frammentato, discontinuo, come se la coscienza stessa fosse sotto bombardamento.

Il titolo non è casuale. Il “cafard” è l’insetto che sopravvive ovunque, che vive negli angoli bui, che resiste anche alla distruzione totale. Ma è anche il simbolo di ciò che striscia, di ciò che viene disprezzato, di ciò che non ha valore. Il film suggerisce che la guerra trasforma gli uomini in cafard: creature che non vivono più, ma sopravvivono, che non scelgono, ma reagiscono. Non c’è dignità in questa sopravvivenza, solo una forma di persistenza biologica.

Politicamente, Cafard è un film senza compromessi. Non cerca di equilibrare le colpe, non costruisce simmetrie rassicuranti. La guerra è mostrata come un sistema intrinsecamente criminale, indipendentemente dalle bandiere. La violenza non è un mezzo, ma il fine stesso. In questo senso, il film si avvicina più a una visione nichilista che pacifista: non c’è speranza di riforma, solo la constatazione di un fallimento strutturale.

La durata relativamente breve contribuisce alla sensazione di asfissia. Cafard non diluisce, non concede pause. È un pugno secco, compatto, che lascia il segno proprio perché non cerca di essere esaustivo. Non racconta tutto: racconta abbastanza da rendere impossibile lo sguardo innocente.

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Alla fine, Cafard lascia addosso una sensazione di sporco morale, di disagio persistente. È un film che non vuole essere amato, né ricordato con piacere. Vuole essere sopportato, metabolizzato lentamente, come un veleno che agisce nel tempo. Un’opera dura, respingente, necessaria. Un film che usa l’animazione per dire ciò che il cinema di guerra tradizionale spesso non osa: che non esiste una guerra giusta, solo una lunga catena di deformazioni dell’umano.

By Anam

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