BLADE OF THE IMMORTAL [SubITA]

Titolo originale: Mugen no jûnin
Nazionalità:
Anno: 2017
Genere: Azione, Drammatico
Durata: 140 min.
Regia: Takashi Miike

Takashi Miike torna sulla Croisette fuori concorso con Blade of the Immortal, un jidaigeki screziato di fantasy e horror tratto da un celebre manga di Hiroaki Samura. Un divertissement che mostra il lato più ludico del regista giapponese, che però allo stesso tempo torna a ragionare da vicino su tematiche a lui particolarmente care come il concetto di corpo, l’impossibilità a morire e la coazione a ripetere. Un’opera magari diseguale ma di grande forza fisica, in cui a dominare non è il rosso del sangue (anzi, lasciato spesso in secondo piano) ma gli effetti dello scontro corpo a corpo. Una riflessione, a suo modo, sul potere e sulle sue forme di repressione delle classi “svantaggiate”. Con Takuya Kimura, Ebizō Ichikawa, Sota Fukushi e la giovanissima Hana Sugisaki.

Il codice che non c’è mai stato
Manji è un samurai che ha tradito lo shogunato; per questo, braccato e con una taglia sulla testa, viene coinvolto in un combattimento nel quale vede morire di fronte ai propri occhi la giovane sorella. Anche lui sta per morire, dopo aver massacrato gli avversari, ma una misteriosa donna appare e gli dona l’immortalità attraverso dei “vermi del sangue” che si rigenerano incessantemente nella sua carne. Cinquanta anni dopo questi fatti i genitori della giovanissima Rin Asano vengono uccisi da un gruppo di spadaccini della scuola “Itto ryu”, intenzionati a distruggere la di samurai del padre di Rin. La ragazzina vuole vendicasi, e si rivolge a Manji per essere addestrata al combattimento. Manji rivede nello sguardo di Rin la sorella defunta.

Blade of the Immortal è l’ottantanovesimo lungometraggio diretto da Takashi Miike, considerando sia i film pensati per la sala che quelli destinati dal direct-to-video (non sono invece conteggiati gli episodi e le miniserie televisive); un numero in eterno divenire, visto che Miike ha già concluso il lavoro sull’avventura fantasy JoJo’s Bizarre Adventure: Diamond Is Unbreakable – Chapter 1, che uscirà nelle sale giapponesi ad agosto, e si è catapultato sul set di Laplace’s Witch, che sulla carta sembra un progetto più personale, teso verso le timbriche di un oscuro mystery. Sulla prolificità del regista di Ichi the Killer, The Happiness of the Katakuris, Audition e Shinjuku Triad Society si è già scritto molto, fin a partire dai primissimi anni del Ventunesimo Secolo, ed è inutile ribadire concetti triti e ritriti tanto per gli appassionati cultori quanto per gli spettatori meno ferrati ma curiosi. Certo, anche un film come Blade of the Immortal non fa altro che inserirsi in un sistema produttivo che trova in Miike un cantore puntuale, esecutore attento ma mai prono di fronte alle sceneggiature che gli vengono propinate, e che spesso e volentieri prendono a mani basse tanto dalla letteratura di largo consumo quanto dall’universo manga. Ma questa è oramai un’ovvietà che non dovrebbe stupire davvero nessuno.
Blade of the Immortal (il titolo originale, Mugen no jūnin, è traducibile alla lettera come “L’abitante dell’infinito”, dai vaghi e con ogni probabilità involontari sapori lovecraftiani) nasce sul grande schermo da un manga pubblicato per un ventennio, a partire dal 1993, da Hiroaki Samura sulla rivista Afternoon edita dalla Kōdansha; la è quella di Manji, rōnin [1] che per i suoi crimini è stato dannato da una misteriosa donna a vivere in eterno, ospitando all’interno del suo sangue dei famelici vermi che riemarginano ogni tipo di ferita che gli può venire inflitta. Manji, in questa condizione, si trova ad aiutare una ragazzina che ha visto massacrare i propri genitori – gestori di una per samurai – e che vuole ottenere la propria vendetta.

Se il tema centrale del film, quello dell’uomo-demone abilissimo nelle arti marziali e che non può in nessun caso venire ucciso rievoca all’istante la progressione dell’ammazzatutti Izo, protagonista di uno dei titoli centrali per comprendere la poetica di Miike, Blade of the Immortal segue un tracciato assai meno sperimentale, adeguandosi a quello strano ibrido tra jidaigeki, commedia fracassona e horror che ha reso inconfondibile il marchio di fabbrica del regista giapponese. Lontano dall’asciuttezza angosciosa e stilizzata di Izo, Blade of the Immortal appare semmai come la versione soprannaturale e semplificata di 13 assassini: se in quel caso però si rifletteva sul concetto di gruppo che accetta di andare al macello per assolvere a un compito più alto (lo stesso lirismo crepuscolare de I sette samurai, il suo remake hollywoodiano firmato da Sturges e Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, tanto per fare tre esempi), Manji è un puro esecutore di una vendetta privata. Almeno all’apparenza.
Laddove l’impianto narrativo e la matrice di partenza non permetto a Miike di eludere alcune trappole che nel corso delle quasi due ore e mezza di durata compaiono sullo schermo – a partire da una certa ripetitività delle situazioni, e da un mancato approfondimento di parte dei caratteri in scena – è affascinante notare come anche di fronte a un progetto standardizzato, e che la stragrande maggioranza dei registi affronterebbe senza particolari velleità, Miike sia in grado di ricondurre i nodi cruciali del racconto verso tematiche care alla propria poetica espressiva. Sulla mattanza di Blade of the Immortal (prosciugata in ogni caso della maggior parte del sangue, ma restano comunque a terra centinaia di cadaveri nel corso del film) appaiono in riflesso alcuni passaggi tutt’altro che secondari, e che appartengono in tutto e per tutto agli interessi peculiari del regista.

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Innanzitutto il concetto di classe, con gli uomini capitanati da Kagehisa Anotsu che lottano, pur con diverse sensibilità, perché le loro radici – contadine o comunque povere – non consentono loro per legge di appartenere al mondo che può portare un’arma e usarla (e anche il discorso sull’ingiusto dominio della spada, arma nobile, sugli altri oggetti da usare in combattimento non è da prendere sottogamba o lasciare in secondo piano). Ma anche e soprattutto il discorso sul corpo, sulla sua rinnovabilità, sull’infinita energia che riproduce cellule, dona nuova vita-non-vita, e sul concetto di sevizia, smembramento e nuovo accorpamento. Il corpo in Miike è materia fluida, quasi come quel sangue che non si vede ma c’è, o come l’acqua in cui ci si sofferma a bere, arsi dalla sete per una gran corsa. Il corpo non è solo vivo, concetto secondario e superabile, è cosa a se stante, oggetto rimodellabile a proprio piacimento, arma impropria. Così come l’ambiguità sessuale – gli uomini di Kagehisa stuprano senza problemi la madre della giovane Rin, ma il loro capo non ha una reale identità sessuale, né virile né femminile –, altro aspetto centrale della poetica di Miike.
Al di là di questo Blade of the Immortal, che la settantesima edizione del Festival di Cannes ha deciso di ospitare nel fuori concorso, è un divertissement che sa tenere lo spettatore sulla sedia, girato con grande professionalità e una classe che film dopo film, anno dopo anno, si fa sempre più cristallina – sotto questo punto di vista basterebbe anche solo lo straordinario incipit in bianco e nero. Certo, Miike questo film l’ha già girato e probabilmente tornerà a girarlo di quando in quando. Ma c’è forse qualcosa di male?

1. I rōnin (浪人, alla lettera ‘uomo alla deriva’) erano i samurai che, oramai senza padrone – o per la morte dello stesso o perché “licenziati” dopo un atto considerato disonorevole – decadevano dal loro status e vagavano senza meta alla ricerca per lo più di monasteri buddisti dove passare il resto dei loro giorni seguendo il codice di comportamento. Spesso diventavano però spadaccini al soldo dei signorotti locali che si servivano di loro per difendere il feduo od ottenere vendetta verso qualche nemico. È da notare come sovente il rōnin diventasse tale per essersi rifiutato di praticare il seppuku, il suicidio rituale, contravvenendo dunque alla regola di vita del samurai, il cosiddetto bushidō.

Recensione: quinlan.it

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