
Titolo originale: Black Is Beltza
Paese di produzione: Spagna
Anno: 2018
Durata: 80 minuti
Genere: Animazione, Azione, Thriller
Regia: Fermín Muguruza
Sinossi:
Nel 1965, durante la celebre parata di New York, la comparsa dei giganti di cartapesta dei Paesi Baschi viene sconvolta da un atto di segregazione razziale: i due giganti “neri” non possono sfilare. Manex, giovane incaricato del corteo, si ritrova improvvisamente catapultato in un’America attraversata da rivolte, movimenti radicali, rivoluzioni culturali e oscure trame internazionali. Quello che parte come un viaggio lavorativo diventa un percorso ellittico dentro i meccanismi del potere, della resistenza politica e della manipolazione globale.
Recensione:
Black Is Beltza è un viaggio pulsante, irregolare, quasi febbrile nel cuore del mondo degli anni Sessanta, quando tutto sembrava sul punto di esplodere e niente era davvero come appariva. Muguruza costruisce un film che è insieme memoria storica, psichedelia politica e visione lisergica delle faglie che attraversano la società occidentale. Manex non è solo un protagonista: è un testimone trascinato dagli eventi, una sorta di antenna umana che capta vibrazioni, segnali, sussurri e tensioni che la narrazione ufficiale tende sempre a sfumare.
L’animazione, volutamente abrasiva, porta con sé una grana ruvida, sporca, che restituisce la materia viva dei decenni di lotte: manifestazioni, controculture, guerriglie urbane, stanze fumose dove si decidono i destini di intere popolazioni. Ogni scena è come una tavola ribelle di un fumetto clandestino, un mosaico di volti, slogan e rivelazioni che si sovrappongono senza mai dare al pubblico la sicurezza di un terreno stabile. È proprio in questa instabilità che Muguruza trova la sua forza: Black Is Beltza non vuole rassicurare, ma svegliare.
La parabola di Manex lo trascina in contesti diversi — club jazz in fermento, sotterranei pieni di agenti doppiogiochisti, guerriglieri, artisti, idealisti e disperati — dove sembra che tutti sappiano qualcosa che lui ignora. Il film mette in scena quella strana sensazione contemporanea: la percezione che dietro ogni notizia, dietro ogni evento pubblico, ci sia un secondo livello, un’altra partita che si gioca al buio. E Muguruza non ha paura di evocare questa dimensione complottista, ma lo fa con intelligenza, insinuando il dubbio più che affermando verità. Ogni incontro di Manex è una porta verso un’altra verità possibile, un’altra tessera del puzzle geopolitico di quegli anni incandescenti.
La musica, come sempre nell’opera di Muguruza, è più di un sottofondo: è una forza motrice, un codice segreto che apre varchi emotivi e politici. Jazz, rock, tradizione basca, ritmi sudamericani: tutto diventa strumento di resistenza, linguaggio dei popoli schiacciati sotto l’architettura rigida delle superpotenze. Il film sembra suggerire che la musica sia uno dei pochi linguaggi immuni alla manipolazione, una vibrazione che sfugge ai governi e che continua a testimoniare la verità delle strade.
In questo vortice di incontri, fughe, rivelazioni e inganni, Black Is Beltza assume la forma di un romanzo di formazione politico-esoterico. È un’odissea nel sottosuolo del potere, dove rivoluzione e repressione sembrano inseguirsi come animali feriti. Muguruza non cerca il realismo: cerca la verità emotiva, quella che scava, che brucia, che lascia segni. E così la storia di Manex diventa quella di chiunque abbia attraversato il mondo cercando di capire dove finisca la libertà e dove inizi la manipolazione, cercando un punto fermo in una realtà sempre più fratturata.
Black Is Beltza è un film che avvelena e cura allo stesso tempo, pieno di scintille, di lampi, di intuizioni che restano sospese nell’aria come fumo di sigaretta in una stanza dove si sta decidendo il futuro. Un’opera magnetica, che non chiede di essere capita fino in fondo, ma ascoltata, percepita, attraversata.
