
Titolo originale: Mingri tianya
Paese di produzione: Cina, Francia, Brasile, Corea del Sud, Hong Kong
Anno: 2003
Durata: 96 min.
Genere: Drammatico, Fantascienza
Regia: Nelson Lik-wai Yu
A metà del XXI secolo, la potente setta Gui Dao ha esteso il proprio dominio nell’Asia continentale, portando avanti una campagna di epurazione dei dissidenti. I due fratelli Zhuai e Mian, dopo essere stati catturati, vengono inviati a Camp Prosperity per essere rieducati. Quando il potere della setta viene rovesciato, i due fratelli sperimentano un’improvvisa libertà. Innamoratosi di Xuellan, Zhuai decide di portare la ragazza e suo figlio in una città deserta, dove cercheranno di vivere i piccoli piaceri della vita.
Futuro senza fantascienza, per una storia d’amore proiettata nell’avvenire della Cina, col presentimento di un mondo “comodamente anestetizzato” dall’assenza di valori.
Dichiarazione regista:
«Non so se il soggetto di All Tomorrow’s Parties possa essere considerato fantascienza. Anticipare il futuro non significa automaticamente fare della fantascienza. […] Il film è una storia che predice il futuro: un’Asia post apocalittica. Potrà succedere domani, nel 2075 o nel 3000: chi lo sa… […] A pensarci bene, il racconto può adattarsi facilmente a ogni evento contemporaneo, potrebbe anche essere un film sul dopoguerra. L’ho ambientato nel futuro perché mi permetteva di esprimere meglio le mie emozioni nei confronti delle nostre assurdità e delle nostre fragilità».
All Tomorrow’s Parties di Nelson Lik-wai Yu è uno dei film più enigmatici e ipnotici della fantascienza asiatica postmoderna. È un’opera che si muove come una visione febbrile tra sogno, rovina e allegoria politica, unendo l’estetica minimalista della sixth generation cinese con la desolazione lirica della distopia europea. Nonostante la presenza produttiva e spirituale di Jia Zhangke, il film è interamente pervaso dalla poetica personale di Yu: un cinema fatto di silenzi, di spazi disabitati e di un’umanità ridotta a ombra di sé stessa.
Il titolo, preso dalla celebre canzone dei Velvet Underground, non è casuale: tutte le feste di domani sono ormai finite, il futuro è diventato un deserto e l’utopia collettiva si è trasformata in un rituale di sopravvivenza. Il film si apre con immagini di un monastero dove uomini e donne vestiti di bianco recitano slogan religiosi: “La purezza è libertà”. Già da qui emerge la chiave simbolica dell’opera — la distopia come religione dell’ordine, dove la salvezza si conquista attraverso l’annullamento del desiderio.
La regia di Yu è severa, quasi ascetica. Le inquadrature fisse, i movimenti lenti, le luci lattiginose e i paesaggi desertici costruiscono un mondo sospeso, fuori dal tempo. Non c’è mai azione, solo attesa. Non c’è più progresso, solo detriti di civiltà. L’immagine si fa statua del silenzio, memoria fossilizzata di ciò che fu. Ogni volto è una reliquia, ogni gesto un residuo di libertà.
Il film è diviso in tre capitoli che non comunicano pienamente tra loro, ma si riflettono come variazioni su un tema unico: l’inevitabile fallimento dell’utopia. Nel primo, gli adepti del “Paradiso” vivono in un santuario sotterraneo, dove l’ordine assoluto regna e il mondo esterno è considerato contaminato. Nel secondo, un gruppo di ribelli tenta la fuga verso un luogo promesso — una “zona libera” che, come in Stalker di Tarkovskij, potrebbe essere solo un’illusione. Nel terzo, i resti della società si aggirano tra rovine industriali e distese desertiche, mentre la voce di un narratore fuori campo sussurra memorie di un passato che non tornerà più.
Ciò che rende All Tomorrow’s Parties unico è la sua ambiguità poetica. Non si tratta di una distopia in senso classico, ma di un poema visivo sulla stanchezza del futuro. L’umanità non è schiacciata dalla tecnologia o dalla guerra, ma dal vuoto. Yu descrive una civiltà che ha perso il significato, dove la fede si è sostituita al pensiero e la libertà è diventata un ricordo. Il film è una meditazione sulla perdita del tempo, della storia e dell’individualità.
Esteticamente, Yu combina il realismo documentario con un uso pittorico del colore e del suono. Il deserto, le rovine, le miniere abbandonate diventano scenografie mentali. Le luci fredde e il silenzio quasi totale evocano una spiritualità negativa, una religione della fine. Ogni suono – il vento, l’acqua, i passi nel fango – diventa un segnale vitale, un residuo sensoriale in un mondo che non parla più.
L’opera ha anche una dimensione politica sottile ma tagliente. Dietro la metafora del “Paradiso” si intravede la critica ai totalitarismi moderni, ma anche alla deriva consumista dell’Occidente: due facce della stessa medaglia. Il film suggerisce che il vero totalitarismo non è imposto dall’alto, ma nasce dal desiderio collettivo di ordine, di sicurezza, di senso. È la volontà di credere in un sistema, anche quando esso ci distrugge.
All Tomorrow’s Parties si inserisce nel solco del cinema contemplativo di fine secolo – vicino alle visioni di Tsai Ming-liang, Béla Tarr o Apichatpong Weerasethakul – ma possiede un’anima tutta sua: mistica, malinconica e profondamente umana. Non racconta una storia, ma un sentimento: quello della resa, dell’attesa silenziosa davanti alla rovina.
Nel finale, quando i protagonisti camminano verso l’orizzonte e la luce si dissolve nel bianco, resta solo un pensiero: il futuro non è ciò che accadrà, ma ciò che abbiamo smesso di immaginare.
