A NIGHT IN NUDE: SALVATION (SubITA)

Titolo originale: Nûdo no yoru: Ai wa oshiminaku ubau
Nazionalità: Giappone
Anno: 2010
Genere: Drammatico, Thriller, Noir
Durata: 127 min.
Regia: Takashi Ishii

Sinossi:
Jiro, un tuttofare privato dalla moralità elastica, accetta il compito di recuperare un orologio smarrito in una foresta. La donna che lo ingaggia è Ren, pole dancer con segreti mortali sotto la danza. Presto si rivela che lei e la famiglia hanno creato un impero di morte: assassini seriali che usano assicurazioni e suonerie come arma. Jiro, scivolato nella loro spirale infernale, sceglie tra complicità e redenzione — ma è già entrato nel loro fango.

Recensione:

La notte di Ishii non è solo buio: è un sistema. Ha regole, sacerdoti, sale d’attesa, leggi idrauliche del desiderio. A Night in Nude: Salvation si consuma come un rito secolare officiato tra pioggia elettrica e stanze a ore. Non c’è romanticismo del perdente: c’è il calcolo del danno. Jiro non abita un noir, abita un motore dove i sentimenti vengono macinati fino a diventare carburante. Ogni gesto — una sigaretta, un passaggio in auto, una frase a bassa voce — mette in moto un dispositivo. La macchina vera del film è la città, e il suo culto è l’utilità.

Ishii affila l’immagine come una lama, ma la immerge in un catino di desiderio. Capisce una verità antica che la modernità finge di non vedere: l’erotismo non è “decoro della carne”, è politica del potere. Il corpo seduce e dirige, promette e incrimina. Le danze di Ren non decorano le scene, le governano. Si percepisce una grammatica alla Bataille, ma senza proclamazioni filosofiche: eros e violenza non sono due capitoli dello stesso trattato, sono lo stesso respiro che cambia temperatura. Quando la musica si abbassa, resta un rumore tiepido — il suono delle decisioni irreversibili.

Il tempo narrativo è una marea trattenuta. Ishii rifiuta la velocità compulsiva del thriller contemporaneo: preferisce la compressione. Piani lunghi su volti che fanno resistenza, corridoi bagnati dove la luce rimbalza come un animale nervoso, stanze in cui la geometria diventa gabbia. L’effetto è claustrofobico e ipnotico: l’intreccio si “dice” da solo, ma lo spettatore lo sente prima di capirlo. È la differenza tra leggere una diagnosi e vivere un sintomo.

Jiro è una figura liminale — non l’anti-eroe narcisista, bensì il tecnico del compromesso. Non parla molto, misura. Prende su di sé i peccati minori perché il sistema gliene chiede di maggiori. È la personificazione di quella zona grigia dove le anime si barattano al dettaglio. In lui scorre un fatalismo da Cioran ma applicato alla logistica del quotidiano: non c’è ontologia del nulla, c’è l’amministrazione del danno. È un’estetica di viti allentate, conti da pareggiare, favori da ricordare quando verrà il conto. Ed ecco la “salvezza” del titolo: non redenzione teologica, ma sopravvivenza amministrata.

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Ren non è il “femminile fatale” muto che tanta iconografia riduce a totem. È una stratega. Sa che ogni lacrima ha un prezzo, e ogni sorriso uno scopo. Lo sguardo che rivolge a Jiro non chiede protezione, chiede complicità. È l’eco di Tanizaki: “In lode dell’ombra” passa qui attraverso i neon malati, dove il chiaroscuro non nasconde, contratta. L’ombra non è mistero, è zona franca in cui si chiudono i patti.

La messinscena lavora di sottrazione e febbre. Quando il film accelera, non lo fa con l’azione, ma con l’intensità del silenzio: pause cariche come un proiettile in canna. La violenza esplode e poi torna subito a comprimersi, come se la città avesse una valvola di sicurezza. Il grottesco affiora a tratti — un sorriso fuori luogo, un dettaglio di costume che sembra un amuleto — ricordandoci che il mondo non è realistico: è rituale. Ogni oggetto ha una funzione sacrale: l’orologio, la polaroid, le scarpe lucide, la giacca troppo pulita. Feticci di una liturgia urbana.

C’è una vena apertamente psicoanalitica che pulsa senza mai proclamarsi: il film è un manuale d’uso dell’agito. I personaggi non ricordano, ripetono. Cercano di cambiare rotta, ripercorrono lo stesso cerchio. È la coazione a ripetere travestita da piano ben congegnato. E quando la ripetizione si incrina, appare un istante di verità: l’abisso del sé. Ishii lo illumina appena, come si illumina un corridoio in un blackout: il giusto per capire la topografia della fuga, non abbastanza per salvarsi davvero.

Questa cura per il dettaglio emotivo convive con un corpo sonoro preciso: bassi ovattati, scricchiolii, pioggia su lamiera, cancelli che si chiudono. Suoni che non illustrano, infliggono. Ti dicono dove sei: non in un cinema di intrattenimento, ma nel ventre di una liturgia industriale del desiderio. La musica, quando entra, non accarezza: anestetizza la colpa perché l’azione possa compiersi.

Nella lunga traiettoria di Ishii, Salvation suona come una confessione senza sacerdote. La macchina da presa non assolve, registra. E in questa freddezza c’è l’aspetto spirituale più potente: la responsabilità. Non c’è destino scritto nelle stelle, c’è una mappa di scelte piccole che disegnano, a posteriori, un rituale di necessità. Chi cerca colpe trova solo atti eseguiti, chi cerca consolazioni trova solo oggetti. Eppure, la compassione non è bandita: striscia tra le pieghe, ritorna in uno sguardo trattenuto, in una mano che esita un attimo prima di spingere la porta.

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Il finale non promette liberazione cosmica: offre una misura. In un mondo di notti senza orizzonte, la vera salvezza è sapere quanto siamo disposti a perdere per non sprofondare. È l’etica minima dei sopravvissuti: non diventare mostro mentre parli con i mostri, anche se loro ti pagano in contanti. E questo, per chi guarda, è l’insegnamento che resta: la notte non si vince, si attraversa.

Film per Evolvere significa anche questo: guardare i meccanismi dell’ombra senza moralismi da manuale e senza estetismi vuoti. Qui l’ombra è infrastruttura e la luce è solo un incidente felice. Chi resta, impara a respirare sott’acqua. Chi scappa, ci tornerà. Perché la città — e il desiderio — non dimenticano.

By Anam

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