
Titolo originale: A Child’s Voice
Paese di produzione: Stati Uniti
Anno: 2018
Durata: 96 min
Genere: Thriller, Drammatico,
Regia: Edgar Michael Bravo
Sinossi:
Un ex criminale tormentato dal proprio passato inizia a sentire la voce ultraterrena di un bambino che chiede aiuto. Seguendo quei sussurri misteriosi, l’uomo scopre un sinistro traffico di esseri umani e una rete di potere che si estende nelle ombre della società americana. Insieme a una giovane donna segnata da traumi e visioni, intraprende un viaggio che si muove tra il reale e il soprannaturale, tra la colpa e la redenzione, verso la verità che ogni sistema cerca di occultare.
Recensione:
A Child’s Voice è uno di quei film che sembrano emergere da una ferita. Non è un’opera che nasce per piacere, ma per disturbare, per smuovere, per aprire un varco nella coltre spessa del silenzio. Edgar Michael Bravo realizza un thriller paranormale a basso budget che, dietro la sua semplicità visiva, nasconde una delle narrazioni più scomode e controverse del cinema indipendente americano recente. È un film “proibito” non per i suoi contenuti espliciti, ma per il tipo di verità che osa suggerire, per il coraggio con cui accosta il dramma umano all’invisibile, la fede alla paranoia, l’empatia al sospetto.
La trama, in superficie, sembra quella di un racconto di redenzione: un uomo ai margini della società che, spinto da una voce misteriosa, trova un nuovo scopo. Ma il modo in cui Bravo intreccia questo percorso con l’orrore reale del traffico di minori e l’occultamento del male sistemico trasforma il film in qualcosa di più profondo — quasi un atto di testimonianza spirituale.
C’è qualcosa di disarmante nella messa in scena: le immagini hanno il tono spoglio e crudo del cinema povero, i dialoghi oscillano tra il mistico e l’infantile, eppure tutto vibra di un’autenticità che pochi film “importanti” riescono a raggiungere. Si percepisce che Bravo non vuole costruire un intrattenimento, ma un grido.
E in questo grido si cela la parte più potente e ambigua dell’opera. A Child’s Voice appartiene a quel territorio liminale in cui la narrativa indipendente sfiora la teoria del complotto, dove il misticismo si intreccia con il trauma collettivo e la finzione diventa un’arma di denuncia.
C’è chi lo ha liquidato come un film mal recitato o stilisticamente confuso, ma sarebbe come rimproverare a un sogno di non rispettare la grammatica del giorno. Il suo linguaggio è quello dell’incubo morale. La voce del bambino non è solo un fantasma narrativo: è la coscienza che parla all’umanità attraverso la colpa di un singolo. È la voce dell’innocenza perduta, che chiede di essere ascoltata in un mondo che ha scelto di tapparsi le orecchie.
Bravo non usa il soprannaturale come un espediente, ma come una lente: l’altro mondo diventa l’unico spazio possibile dove le vittime possono ancora essere udite. E così il film si trasforma in un atto quasi religioso, un piccolo vangelo apocrifo sul potere della compassione in un’epoca disumanizzata.
Ogni scena è immersa in un’atmosfera sospesa, fatta di luci sporche, cieli pallidi, stanze senza tempo. È come se tutto il mondo fosse in attesa di un perdono che non arriverà mai.
Eppure, nonostante la cupezza, c’è una tenerezza sotterranea: Bravo filma i suoi personaggi con pietà, con un amore che trapassa la goffaggine e abbraccia la loro miseria.
L’incontro tra i due protagonisti – un uomo segnato dalla colpa e una donna spezzata dalla vita – rappresenta il cuore del film. Non è una storia d’amore nel senso convenzionale, ma una comunione di anime ferite, unite da un compito più grande di loro. In questa unione senza eros, quasi mistica, Bravo costruisce una parabola sull’ascolto: ascoltare l’altro, ascoltare il dolore, ascoltare la voce che ci chiama da dentro.
E nel farlo, mette a nudo il grande tema che attraversa tutta la sua filmografia: la responsabilità morale di chi ha visto l’orrore e non può più fingere di non sapere.
Non mancano i momenti in cui il film sfiora il simbolismo cristologico. Il bambino, la voce, il sacrificio: tutto rimanda a un atto di redenzione che è insieme personale e universale. Bravo sembra voler dire che il male non può essere distrutto, ma solo riconosciuto, e che la grazia può nascere anche dalla più sporca delle verità.
In questo senso, A Child’s Voice è un film imperfetto ma necessario, come un atto di fede registrato su nastro magnetico. È il tentativo disperato di un regista di dare forma all’invisibile, di urlare l’indicibile attraverso il linguaggio fragile del cinema indipendente.
Il suo limite tecnico diventa la sua forza poetica: il montaggio ruvido, la fotografia instabile, i volti fuori posto… tutto contribuisce a creare quella sensazione di realtà alterata che lo rende unico. È un film che non ti chiede di credere, ma di sentire. E nel momento in cui lo spettatore accetta di lasciarsi attraversare, si ritrova catapultato in una dimensione dove il soprannaturale è solo un altro nome per la verità che non vogliamo affrontare.
Forse è per questo che A Child’s Voice è stato emarginato, ignorato o ridicolizzato. Perché osa nominare l’orrore che tutti intuiscono ma nessuno vuole vedere. Non è un film “scomodo” nel senso politico del termine, ma nel senso spirituale: ti obbliga a guardare il male non come una forza esterna, ma come una presenza interna, intima, che cresce nel silenzio di chi si volta dall’altra parte.
Ciò che resta, alla fine, è una sensazione strana di speranza e tristezza insieme. Come se Bravo ci dicesse che la salvezza non è mai una conquista, ma un atto di ascolto. E che forse, da qualche parte, quel bambino che parla dall’aldilà non è che la nostra stessa voce, dimenticata, che implora di tornare a essere umana.
