WHO’S SINGIN’ OVER THERE? (SubITA)

Titolo originale: Ko to tamo peva
Titolo internazionale: Who’s Singin’ Over There?
Paese di produzione: Jugoslavia (Serbia)
Anno: 1980
Durata: 86 min
Genere: Commedia, Drammatico, Grottesco
Regia: Slobodan Šijan

Sinossi:
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, un gruppo eterogeneo di passeggeri viaggia su un autobus scassato diretto a Belgrado. Tra discussioni, pregiudizi e piccoli conflitti quotidiani, le loro interazioni diventano un microcosmo della società serba dell’epoca. Il viaggio, apparentemente banale, si trasforma in un ritratto tragicomico dell’umanità, sospesa sull’orlo del disastro imminente.

Ci sono film che si guardano. E poi ci sono film che ti guardano loro, con quegli occhi stanchi e sardonici che sembrano venire da un tempo sospeso, dove il reale si è già arreso al grottesco. Ko to tamo peva è uno di questi. È una parabola, una profezia, un rituale buffonesco sulla decomposizione di una nazione, ma anche un trattato esistenziale sul tragico dentro il comico — e viceversa. Slobodan Šijan, con il suo occhio lucido e disperatamente ironico, filma la fine del mondo come una gita domenicale all’inferno, a bordo di un autobus che non arriverà mai davvero a destinazione.

Il viaggio dei suoi passeggeri non è solo fisico: è un percorso nella psicologia collettiva di un popolo che si dibatte fra canzoni, superstizioni, orgoglio e miseria. Ogni personaggio è una maschera archetipica, un frammento di quella Jugoslavia sospesa fra il patriottismo e la rovina. C’è il borghese che parla troppo, il soldato tronfio, il contadino ignorante, il vecchio malato, la giovane coppia ingenua — tutti compressi in quell’abitacolo che diventa una sorta di teatro dell’assurdo su ruote.

Šijan costruisce il film come una commedia infernale, con un ritmo che alterna la risata alla nausea. Ogni sosta, ogni incontro, ogni baruffa sembra preludere a qualcosa di più grande, come se l’intera umanità stesse inconsapevolmente recitando la sua ultima farsa prima dell’apocalisse. E in effetti, poco dopo, il cielo esplode. Ma prima che le bombe cadano, il film ci regala l’essenza stessa del paradosso balcanico: un popolo che canta mentre brucia, che ride mentre affoga.

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La fotografia di Tomislav Pinter, calda e terrosa, rende ogni inquadratura una sorta di dipinto preraffaellita immerso nel sudore e nella polvere. Le luci morbide dei tramonti balcanici contrastano con l’anarchia emotiva che pervade i personaggi. Tutto è reale e al tempo stesso simbolico: l’autobus è la Jugoslavia stessa, fragile e rumorosa, che continua ad andare avanti per inerzia, senza sapere di essere già condannata.

Ciò che rende Ko to tamo peva straordinario è la sua capacità di fondere il microcosmo e il mito, il quotidiano e il cosmico. Dietro la comicità dei litigi e delle disgrazie si nasconde un commento feroce sulla stupidità umana e sul destino. Ogni battuta, ogni smorfia, ogni accordo musicale degli zingari sembra dire: “Siamo già morti, ma continuiamo a ballare”.

Il film si muove tra il surreale e il documentaristico, tra il sarcasmo e la tenerezza, costruendo una satira che diventa elegia, una barzelletta che si trasforma in preghiera. In questo senso, Šijan sembra anticipare l’estetica del “weird balcanico” che esploderà negli anni successivi, fino a registi come Kusturica. Ma qui c’è qualcosa di più primordiale, di meno spettacolare e più metafisico: la sensazione che la Storia non sia altro che un loop di follie umane, un autobus che gira in tondo nella campagna dell’assurdo.

E poi ci sono i due zingari, anime erranti, osservatori e profeti, che con la loro musica trascinano tutto verso una dimensione quasi mistica. Sono gli unici che sembrano intuire ciò che sta per accadere, gli unici che cantano con la consapevolezza di chi ha già visto la fine. Le loro melodie, che ritornano come un coro greco, sono la voce stessa del film: malinconica, ironica, terribilmente lucida.

Quando arriva il finale, con le bombe che distruggono tutto, non c’è pathos, non c’è eroe, non c’è nemmeno tragedia nel senso classico. C’è solo il silenzio dopo la risata, l’eco di un canto che si spegne nel vento. E forse è proprio lì che Ko to tamo peva rivela il suo cuore: nel ricordarci che il riso e la morte condividono la stessa bocca.

Questo film non si limita a raccontare un’epoca, ma la trasfigura. È il sogno febbrile di una nazione che scompare, un requiem suonato con il kazoo e con le ossa. Guardarlo oggi significa specchiarsi in un tempo che non esiste più — ma che, in qualche modo, ci appartiene ancora. Perché anche noi, passeggeri distratti del nostro tempo, stiamo forse viaggiando nello stesso autobus, convinti che la città ci aspetti, mentre il cielo sopra di noi si prepara a cadere.

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By Anam

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