Titolo originale: Shultes
Nazionalità: Russia
Anno: 2008
Genere: Drammatico
Durata: 100 min.
Regia: Bakur Bakuradze
Il film segue una giornata di Lyosha, un uomo che a seguito di un trauma ha perso la memoria e ora tira a campare commettendo furti di auto…
Shultes è indubbiamente un film asettico: racconta la storia di un atleta che, a causa di un incidente, è costretto a smettere di gareggiare, quindi come può non essere un film asettico? Deve essere un film asettico, Shultes, perché la disperazione è asettica, è lo stato in cui ci si ritrova nel momento in cui non si riesce a fare più posto ad altro: nella disperazione cose come l’amore e la speranza non trovano posto, così tutto si fa stilizzato, asettico, e il problema è che la disperazione satura – si satura di se stessa. Non è manchevole di nulla, la disperazione, perché la disperazione è totalizzante. È per questo che si è disperati, perché non si ha vie d’uscita dalla disperazione. Ecco, a ben pensarci, la disperazione è qualcosa di molto autoreferenziale: in una certa maniera, si è disperati per il fatto di essere disperati e mai per altro. Il georgiano Bakuradze coglie appieno lo spirito di quest’ignavia (della disperazione della disperazione) e lo rappresenta con uno stile minimalista – contemplativo, sì, ma il fatto, e la grandezza di Shultes, è che in Shultes, non c’è niente da contemplare se non quel vuoto, quell’ignavia, quell’immobilismo a cui è ridotto il protagonista. È un film torbido, Shultes, che non prova pena per lo spettatore e, anzi, per certi versi sembra realizzato per disperare lo spettatore, per condurlo nel vuoto che mette in scena.
In questo senso, Bakuradze coglie appieno lo spirito del cinema contemplativo e lo innesta nel film minuto dopo minuto, repentinamente, spogliando passo passo la sceneggiatura di qualsiasi elemento informativo che possa anche solo velatamente strutturare una storia all’interno di questo, perché non c’è storia in Shultes, non c’è nemmeno un approfondimento psicologico: i personaggi, appannati dietro l’ottica del protagonista, rimangono come fuori-fuoco su uno sfondo piatto, da cui non emergono, e tutto ciò che è presente in questo spazio e nello spazio dello schermo è la disperazione, la sua destabilizzante autoreferenzialità, il suo vuoto espansivo, ed è su questo carattere espansivo-performativo della disperazione che Shultes si costruisce e si satura, si apre e si chiude: inglobando o, meglio, risucchiando tutto ciò che ha d’attorno e disperandolo, sì che allo spettatore non rimanga che un vago senso di perdita – di sconfitta subita senza aver nemmeno giocato la partita.
Recensione: emergeredelpossibile.blogspot.it