TRANSE (SubITA)

Titolo originale: Transe
Paese di produzione: Portogallo, Francia, Germania, Italia
Anno: 2006
Durata: 126 minuti
Genere: Dramma, Psicologico
Regia: Teresa Villaverde

Sinossi:
Sonia, giovane russa in cerca di un futuro migliore in Europa, viene risucchiata in una spirale di violenza e perdita di identità quando cade nelle mani di una rete che la riduce in schiavitù. Inizia per lei un viaggio claustrofobico attraverso paesi, case anonime e relazioni dominate dalla coercizione. Ogni luogo cancella un pezzo della sua memoria, fino a lasciarla sospesa tra ciò che era e ciò che le è stato imposto di diventare.

Recensione:
“Transe” è un film che non si guarda: si subisce. Teresa Villaverde costruisce un’esperienza sensoriale che scava direttamente nella zona più vulnerabile dell’essere umano, quella dove non c’è più linguaggio, solo resistenza. La sua regia è un corpo a corpo con l’oscurità, priva di compiacimento, priva di retorica, priva persino di consolazione. È un cinema che respira insieme a chi soffre, senza filtri, senza scorciatoie narrative.

La cosa più devastante è il modo in cui il film dissolve la figura della protagonista. Sonia entra in Europa come una persona definita, riconoscibile, piena di desideri, e Villaverde – con un’accuratezza quasi rituale – la sfibra, la consuma, la fa scivolare in una dimensione dove l’identità non serve più. È come assistere alla lenta disgregazione di una presenza luminosa: non c’è un momento preciso in cui tutto si spezza, perché la realtà che la inghiotte è fatta di micro-traumi, di gesti muti, di violenze che non hanno bisogno di essere mostrate per essere definitive.

Il film parla di traffico di esseri umani, ma senza mai assumere la forma didascalica di un “film a tema”. È un viaggio nell’inferno quotidiano, quello che si compie in appartamenti normali, in auto che percorrono autostrade banali, in stanze dove il silenzio pesa più degli urli. La camera di Villaverde non è un testimone neutrale: è come un occhio che trema insieme alla protagonista, che non si permette di distanziarsi, che rifiuta il comfort dello sguardo esterno. Tutto è vicino, troppo vicino.

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L’atmosfera è quella di un incubo che non esplode mai, che non ha catarsi. È una nebbia spessa, quasi sacrificale, dove ogni movimento sembra un atto ultimo. Il film diventa un rito di smarrimento: Sonia perde il nome, il corpo, la voce. Diventa un simbolo doloroso dell’Europa sotterranea, quella che vive di ombre e di economie oscure. E allo stesso tempo resta una figura concreta, una presenza così fragile da diventare quasi sacra nella sua sopravvivenza.

Villaverde non cerca di costruire un arco drammatico tradizionale: vuole che lo spettatore entri nel “transe” evocato dal titolo. Vuole che si perda, che si disorienti, che provi sulla pelle quel senso di annientamento che non si può spiegare. È un lavoro che richiama il cinema più radicale e spirituale, quello che non racconta ma evoca, che non parla ma vibra. Un film che funziona come una ferita: si apre lentamente, poi continua a pulsare anche dopo la visione.

“Transe” è una meditazione feroce sull’identità come territorio minacciato, sul corpo come moneta e prigione, sulla speranza che si sfalda fino a diventare quasi un ricordo malato. In alcuni momenti sembra che Sonia diventi un fantasma di se stessa, un’eco che nessuno ascolta più. Ma proprio in quell’eco c’è la forza del film: una resistenza minima, disperata, ma invincibile nel suo essere ancora lì. Un cinema che non concede pace, ma dice la verità che molti non vogliono vedere.

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By Anam

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