
Titolo originale: Sirat
Titolo Internazionale: Sirât
Paese di produzione: Spagna, Francia
Anno: 2025
Durata: 115 min.
Genere: Avventura, Azione, Drammatico, Thriller, Musicale
Regia: Oliver Laxe
Terzo lungometraggio di finzione per il regista franco-gallego Óliver Laxe, Sirat parte come studio atmosferico del mondo dei rave, prosegue come viaggio alla ricerca di una persona scomparsa, si tramuta in film d’avventura per poi svelare il suo volto più politico, la riflessione su un occidente senza più orizzonte, perso in balia di eventi che crede di comandare e non sa nemmeno intuire. Magmatico e angosciante, Sirat è stato presentato in concorso al Festival di Cannes 2025.
Mine vaganti
Un padre e suo figlio giungono a un remoto rave nelle profondità delle montagne del Marocco meridionale. Stanno cercando Mar, figlia e sorella, scomparsa cinque mesi prima durante una di queste feste interminabili. Immersi nella musica elettronica e in una libertà selvaggia a loro estranea, diffondono instancabilmente le foto della ragazza. La speranza svanisce, ma i due persistono e seguono un gruppo di raver verso un’ultima festa nel deserto. Mentre si addentrano sempre più nell’immensità ardente, il viaggio li mette di fronte ai propri limiti. [sinossi]
Erano anni che nel concorso del Festival di Cannes non faceva la sua apparizione un’opera a suo modo inclassificabile come Sirat, terzo lungometraggio di finzione per il cineasta franco-ispanico (per l’esattezza gallego) Óliver Laxe. Non ci siano fraintendimenti: non si sta qui affermando che la competizione della kermesse cinematografica più importante a livello mondiale non abbia presentato nel corso del tempo opere di altissimo spessore, ma che il senso di stordimento, la profonda angoscia connessa a uno stato febbrile, quasi isterico, che si prova al termine della visione di questo sabba all’inferno della Terra – e dunque intriso di realtà – ha lasciato sbigottiti, e fatica ad abbandonare la memoria anche a posteriori, quando com’è abitudine all’interno delle programmazioni festivaliere ci si deve confrontare immediatamente o quasi con altri film, altre strategie produttive, altre estetiche, altre culture. Laxe aveva già impressionato con Mimosas e O que arde, ma qui si produce in un salto triplo, osa scavalcare montagne invalicabili utilizzando una macchina che a malapena potrebbe reggere una strada vagamente dissestata. Basterebbe l’incipit per accreditare Sirat come un viaggio misterico alle radici stesse del confronto/scontro tra occidente e resto del mondo: le brulle rocce e montagne rossastre del Marocco meridionale sono scosse dal basso sintetico rilanciato da casse acustiche che a loro volta rammentano una piccola montagna. La natura è scossa, forse persino scalfita, dall’invasione di un mondo occidentale “pacifico”, schiere di raver che ballano incessantemente, senza fare distinzione tra notte e giorno, di quando in quando accasciandosi per riposare dove più conviene o capita, il retro di un van o un giaciglio di fortuna a terra. Sono decine, centinaia, tutti europei, che cercano in quel brullo deserto la sintesi del viaggio, l’ipotesi romantica e ancora possibile della Tangeri della memoria beat. Laxe non lesina totali annichilenti e soverchianti, quasi a ribadire che la regia è lì a dominare, e non a essere dominata. Ma c’è un’anomalia che serpeggia tra questa moltitudine di corpi sudanti e danzanti (“non conta la musica, ma il ballo” sentenzierà un po’ più avanti nel racconto uno dei personaggi), e risponde ai nomi di Luis ed Esteban. Il primo è un uomo di mezza età, con un ventre incipiente e lo sguardo melanconico, il secondo un bambino, suo figlio: accompagnati dalla fedele cagnolina Pipa attraversano questa calca umana diffondendo le foto di Mar, figlia e sorella, scomparsa cinque mesi prima proprio a un rave.
Il dramma atmosferico che si sposa al dramma famigliare di ricerca di una giovane scomparsa? Laxe si diverte a mescolare le carte, e così lo spettatore deve abituarsi all’idea che ogni ipotesi di canone sia destinata a dissolversi in una nuvola, svanendo all’orizzonte. Per inseguire la possibilità (poco più di un desiderio) che Mar possa trovarsi a un altro rave, ancor più sperduto nel bel mezzo del nulla, in quell’immenso deserto in cui passa il confine tra Marocco e Mauritania, Luis ed Esteban abbandonano la colonna di automezzi coordinata dall’esercito marocchino – che ha sgomberato il rave, facendo spegnere la musica e intimando a chiunque di tornarsene da dove era venuto – e si lanciano alla pazza avventura, accodandosi a due camion ben più attrezzati nell’affrontare un territorio ostile, con tornanti assassini, guadi in cui rischiare di rimanere impantanati e chi più ne ha più ne metta. I loro compagni di ventura sono Jade, Tonin, Begui, Stef, Josh, raver duri e puri che portano sui loro corpi le tracce di una vita vissuta ben oltre il bordo, nel pieno dello strapiombo: Tonin ha perso una gamba, Begui la mano destra, a Stef mancano alcuni denti. Residui del passato, resistenti di un disordine voluto, cercato contro la prassi dell’esistere. Sono in tutto e per tutto dei disertori, come i protagonisti della bella canzone di Boris Vian che Tonin improvvisa per sollazzare gli altri (“E dica pure ai suoi / se vengono a cercarmi / che possono spararmi / io armi non ne ho”). Ben presto il pensiero di Mar esce dalle sinapsi dello spettatore, e forse anche dei personaggi se è vero che l’unico commento sulla ragazza viene dalla bocca di Jade che spulciando le foto sul cellulare di Luis afferma di scorgere in lei un volto triste. Si deve solo andare avanti, in un deserto che non dà tregua, eterna incombente minaccia di una natura che non perdona la faciloneria europea, l’idea di un controllo impossibile, e forse dunque anche di una supposta superiorità pur mai espressa a parole. Ed ecco che nelle pieghe di una visione stordente, in grado di scardinare qualsiasi difesa spettatoriale, si fa largo l’Henri-Georges Clouzot di Vite vendute: anche lì i camion, anche lì l’aspra natura, anche lì un’umanità anarchica che vorrebbe solo star fuori da tutti i conflitti. Ma non può.
Sirat è ambientato nel corso di una fantomatica – ma quanto mai prossima e credibile – terza guerra mondiale, non si sa bene scatenata da chi, non si sa bene contro chi altro; un dettaglio che sarebbe del tutto inessenziale, perché la verità è che la guerra è cominciata da anni, senza che vi fossero proclami, e non ha alcuna intenzione di rallentare la sua ferocia, di venir meno alla sua sete di sangue. Non c’è nulla all’orizzonte di ciò che questi disperati vanno ricercando: non si vede mai nulla in fondo alla via, non si vede in fin dei conti neanche la via stessa. Il terreno già povero di suo è anche portatore di mille e più ostacoli, geografici, culturali, dinamitardi. Si deve proseguire, sembrano dirsi in silenzio gli uni con gli altri, perché forse anche nella vita ciò che conta è ballare, non ascoltare. E allora si spegne la radio quando riporta notizie ferali ma non si può schivare questo conflitto che è ontologico prima ancora che guerresco. Il conflitto con il vivere, il conflitto con la norma, il conflitto con ciò che è stato preordinato. Mentre dimostra grandi doti d’intrattenimento, tenendo con sadica sapienza sulla corda il proprio uditorio (e una sequenza, che qui non si cita nel dettaglio solo per non incorrere nell’ira funesta degli strenui oppositori del cosiddetto “spoiler”, è tra le più angoscianti e mirabili viste negli ultimi anni in giro per il mondo), Laxe intesse una riflessione politica tutt’altro che disadorna o velleitaria, tracciando le coordinate per una speculazione su un mondo diseguale, in cui anche il più innocuo degli europei è giustamente colpevole di connivenza, e l’Odissea verso il nulla è ciò che si garantisce a migliaia e migliaia di derelitti che affollano i necrologi nel tentativo disperato di una traversata. Alla ricerca di un Bengodi che non esiste, come forse non esiste Mar (mare? Marocco?), illusione di un mondo che ancora può spostarsi di rave in rave solo per ballare, e non per esplodere. Nel mondo musulmano la locuzione aṣ-Ṣirāṭ al-mustaqīm sta a indicare la retta via, il percorso che porta alla salvazione. Ma è davvero possibile oramai percorrerlo?
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