Titolo originale: Oddity
Paese di produzione: Irlanda, Stati Uniti
Anno: 2024
Durata: 98 min.
Genere: Thriller, Horror
Regia: Damian Mc Carthy
Con l’aiuto di un manichino di legno, un uomo cerca di scoprire la verità che si nasconde dietro la morte della sorella.
Qualche giorno fa, nei commenti, c’era qualcuno che si lamentava perché gli horror non spaventano più. La trovo una critica pretestuosa per due motivi: la paura non funziona per tutti allo stesso modo, è uno stato soggettivo dovuto a una serie di fattori che possono essere ambientali o legati allo stato d’animo del momento. Lo stesso film può farti paura in determinate condizioni e non fartene in altre, quindi dire che un horror “non fa paura” non significa niente. Al massimo possiamo affermare che non ha spaventato noi; inoltre la missione del cinema dell’orrore non è “fare paura”, ma qui il discorso si fa molto complicato e poi non abbiamo spazio per parlare del secondo lungometraggio di Damian Mc Carthy.
L’introduzione mi è tuttavia utile per esprimere una pacata considerazione: Oddity mi ha messo addosso un terrore tale da farmi rimpiangere di essere nata. Magari a voi non farà lo stesso effetto e va benissimo così, quindi insomma, cercate di rilassarvi e togliervi la scopa da fondoschiena, che senza si sta più comodi, ve lo assicuro.
L’antefatto del film è tanto semplice quando agghiacciante: una donna, Dani, sola in una casa da ristrutturare sente bussare alla porta: è un uomo, sconosciuto, che afferma di aver visto qualcuno introdursi in casa per farle del male, e le chiede di lasciarlo entrare per aiutarla. Apprenderemo poi che la donna è stata uccisa e che dell’omicidio è stato accusato proprio il tizio che le si è presentato all’uscio. Ma, appunto, questo è soltanto l’antefatto, mentre il cuore di Oddity risiede altrove, nel personaggio di Darcy, gemella della vittima, medium psicometrica e cieca, convinta di sapere chi sia il vero assassino di sua sorella. È molto difficile dire altro senza svelare troppo sugli sviluppi narrativi di Oddity: la struttura è quella del mistery soprannaturale, con un paio di colpi di scena ben assestati e l’identità di un omicida da svelare.
Eppure, come era anche accaduto in Caveat, l’esordio di Mc Carthy, l’intreccio ha un peso specifico abbastanza basso nell’economia del film; tutto si basa su due fattori principali: una riflessione interessantissima sullo sguardo, sulla percezione, su cosa significhi vedere, e un’atmosfera da incubo che pervade ogni angolo della casa dove si svolge la vicenda. Darcy ha visto chi ha ucciso Dani. Lo ha visto a modo suo, dato che non può vedere nell’accezione comune del termine; lo ha visto perché ha toccato un oggetto appartenuto al presunto assassino, il suo occhio di vetro, e ha la certezza di sapere, una convinzione granitica, che gli altri personaggi di Oddity prendono sotto gamba. Da un lato abbiamo il vedovo di Dani, psichiatra il cui aderire al pensiero razionale e scientifico ingloba la sua intera personalità; dall’altro la sua nuova compagna, Yana, che è ignara di tutto ed è comunque scettica e con un atteggiamento nei confronti di Darcy a metà tra il paternalismo e la repulsione. Tutto questo ci fa percepire Darcy come debole, ma la verità è che la medium vede in maniera diversa da noi e questa visione è un’arma potentissima.
Oddity si svolge quasi interamente all’interno della casa in cui Dani ha trovato la morte, un anno dopo l’omicidio; anche in Caveat tutto accadeva tra quattro pareti, solo che lì si trattava di una vecchia dimora fatiscente, qui la casa da poco ristrutturata è modernissima e priva delle caratteristiche minacciose solitamente attribuite a uno spazio infestato. L’elemento perturbante è introdotto dall’esterno, il manichino che Darcy spedisce al cognato prima di fargli visita, un orribile uomo di legno che fa il paio con il fottuto coniglio di merda di Caveat e che, per gran parte della durata del film, si limita a essere presente, senza che la sua funzione sia resa chiara allo spettatore. Mentre la nottata procede, tuttavia, il luogo diventa sempre più ostile. Basta spegnere le luci (a Darcy non servono, dopotutto) e l’elegante villetta a due piani, tutta spazi aperti e luminosi, muta drasticamente. La stessa Darcy, non sembra farci troppo caso. Non è lei che deve avere paura, sono gli altri: lei se ne sta lì, tutta risposte taglienti e sarcasmo al vetriolo, in attesa.
E infatti le basta attendere perché si scateni l’inferno.
Un inferno molto controllato, a dire la verità. Se si escludono un paio di sequenze concitate, il film è fermo e statico come un sepolcro, ma sempre teso e implacabile nel suo incedere verso il compimento di una vendetta che non lascia alcuna ipotesi di salvezza. È come se fosse sempre sul punto di deflagrare e rimandasse ogni volta l’esplosione a un momento successivo. Questo continuo posticipare la rivelazione dell’orrore vero e proprio è eseguito con grande intelligenza ed è spezzato da due momenti in particolare, atti a farvi saltare fino al soffitto a restare aggrappati al lampadario. Non sono esattamente canonici jump scare, ma improvvise agnizioni sulla natura degli eventi e sulla vera indole dei personaggi. Entrambi dedicatissimi a chi si lamenta che l’horror non fa più paura.
Mc Carthy è eccellente nello sfruttare gli spazi che ha a disposizione, nel lanciare indizi in testa al film e a riproporli in coda con un significato tutto nuovo e diverso; è bravissimo a farci percepire il buio come un’entità tangibile e soffocante e, pur con pochi dialoghi e scarse informazioni, a farci affezionare a Darcy e, soprattutto, a farci capire come funziona la sua mente; bastano tre inquadrature e sappiamo tutto sul rapporto tra le due sorelle, basta uno scambio rapido di battute tra Darcy e il cognato e il conflitto principale tra i due è perfettamente chiaro.
Oddity è tutto un gioco di economia, e non nel senso di basso budget, ma di economia narrativa, nella messa in scena, nello spiegare gli eventi: ognuno di questi elementi è ridotto all’osso, scarnificato, portato al minimo indispensabile.
Il resto è atmosfera, conoscenza del linguaggio della paura, tanta crudeltà e un atteggiamento sardonico di fondo che rende il film persino divertente, in alcuni frangenti. Solo alcuni.
Rispetto al già ottimo Caveat è un passo avanti gigantesco nella carriera di questo regista. Se continua così, Mc Carthy è destinato a diventare uno dei nomi più importanti dell’horror europeo.
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