LONG DAY’S JOURNEY INTO NIGHT [SubITA]

Titolo originale: Di qiu zui hou de ye wan
Paese di produzione: Cina
Anno: 2018
Durata: 138 min.
Genere: Drammatico, Thriller, Visionario
Regia: Gan Bi

Luo Hongwu ritorna a Kaili, sua città natale, dopo essere fuggito per diversi anni. Si mette alla della che ha amato e che non ha mai cancellato dalla sua memoria.

Dopo aver firmato tre anni fa con Kaili Blues uno degli esordi più promettenti degli ultimi anni, Bi Gan arriva alla rischiosa soglia delle conferme con un film che, del primo, è una sorta di fedelissimo reboot con maggiore dispiego di mezzi produttivi. Ma molto più che una scorciatoia, questa scelta appare come una conseguenza perfettamente logica delle premesse del cinema di Bi Gan, che comincia a prendere ora contorni assai ben definiti.
Come in Kaili Blues, al fondo della storia c’è una vendetta. A cercare di compierla è Hongwu, manager in un casinò che torna alla nativa città di (ancora) Kaili per seppellire il padre su richiesta della madre e indagare sulla morte di un certo Gatto Randagio. E come in ogni che si rispetti, i suoi tentativi si mescolano con un fantasma femminile a metà tra sogno e realtà – un fantasma che si scoprirà, come in ogni noir che si rispetti, perversamente intrecciato con un inaccessibile fantasma materno.
Lo sappiamo, la è un tentativo non solo di raddrizzare un torto, ma anche il corso stesso del tempo, restituito a quella linea retta che esso dovrebbe essere. Ma come in Kaili Blues, la vendetta non si compie e il tempo non si lascia linearizzare. Poeta prima che cineasta, Bi passa il suo a fare quello che fanno i poeti: sottrarre i segni all’orizzontalità temporale conduttiva del senso, per restituirli a una verticalità spaziale mediante cui entrano in un sistema fine a se stesso di anafore, ripetizioni, rime, simmetrie e quant’altro. Ne viene fuori, per intenderci, una specie di The Big Sleep (Howard Hawks, 1947) riscritto da un Ruiz (Patrick Modiano, che ha incrociato variamente il regista cileno, è del resto insieme a Chagall una delle fonti dichiarate di di Bi) e girato da un Tarkovskij, nel quale un costante tappeto di dialoghi tra il lirico e il surreale ci fa scivolare in un racconto totalmente incomprensibile che anziché svilupparsi si impiglia di continuo nel ricorrere di elementi sempre uguali, riproposti in un incessante anagramma onirico, per cui quando salta fuori un personaggio chiamato Ace ci sovveniamo subito di un asso di picche inopinatamente comparso in mezzo ai binari di un carrello minerario in una delle prime scene, eccetera. Il tutto sulla scorta di un apparato figurativo di alto livello, che fa tesoro dell’eterogeneità cromatica a chiazze interna al quadro (eccolo, Chagall…), dell’emergere di uno spazio reale/irreale grazie al tessersi dei lenti movimenti di macchina, dei giochi grafici con le superfici opache, col fumo, con l’acqua (eccolo, Tarkovskij…).
È del resto, molto evidentemente, in quel che è la memoria che Long Day’s Journey Into Night vuole inoltrarsi, senza risparmiarsi naturalmente le debite speculazioni teoriche sull’ambiguo rapporto tra memoria e cinema. E quando Hongwu entra in una sala cinematografica inforcando un paio di 3d (e suggerendo allo spettatore di fare altrettanto), un altro film ha inizio: un lunghissimo piano sequenza senza stacchi di montaggio, come in Kaili Blues, ma stavolta anche in tre dimensioni, in cui il della prima parte del film viene, per così dire, mostrato di lato, o di taglio, implicando che il tempo non ha nessun orizzonte innanzi a sé da raggiungere, ma piuttosto un doppiofondo spaziale da esplorare. Il continuo che il piano-sequenza materializza plasticamente e che così tanto assomiglia al nostro ordinario stato di veglia, si dà quindi come un caso speciale di quella più fondamentale compresenza statica, e onirica, di tutti i tempi possibili che chiamiamo “memoria”, alla quale viene solamente aggiunta la “allucinazione vera” della volumetria.

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Questa cesura centrale segna in sostanza un’uscita dal grazie non al filo di Arianna, ma al Minotauro stesso, che per la cronaca ha dodici anni e gioca (male) a ping pong. Perché in fondo quell’uscita dal labirinto in cui dovrebbe consistere questa seconda parte è solo l’ingresso in un altro labirinto, quello spazialmente compatto del villaggio, con i suoi vicoli percorsi virtuosisticamente in lungo e in largo, in piano-sequenza tridimensionale. Dal labirinto della memoria, in fondo, non si esce mai, e anzi quello che rimane dopo aver sfogliato tutti i fantasmi possibili (quelli della femme fatale, quelli della propria immagine allo specchio, quelli edipici della propria origine…), non è una qualche uscita, non è una risoluzione catartico-narrativa, ma il sempiterno riproporsi della semplicissima polarità al fondo del dispositivo cinematografico, che è anche quella al fondo del funzionamento stesso della nostra memoria: la stasi e il movimento. Dopo avere sciolto tutti i fantasmi che avevano animato la prima parte, il film si rassegna dunque all’oscillazione perpetua tra l’eternità e il transitorio, tra lo spazio e il tempo, tra un orologio fermo e un fuoco d’artificio che sembra non dover mai esplodere, tra il sonno e la veglia. Tra l’anima e il corpo. È un movimento a soffietto, per cui a ogni provvisorio cristallizzarsi dell’ammasso di segni temporali in una singola fulminea sintesi, segue sempre la riapertura del tempo.
Un filosofo che molto si è occupato di cinema, e che in esso ha visto (anche se non ha mai avuto il coraggio di dirlo con chiarezza) la ricongiunzione delle speculazioni bergsoniane sulla memoria con quel fondamento dualista classico che lo stesso Bergson a suo modo rifiutava, ha racchiuso tutto questo in una formula precisa e concisa: “Differenza e ripetizione”. È dunque perfettamente legittimo che un film come Long Day’s Journey Into Night imbastisca un discorso sulla memoria non solo operando una ricongiunzione del tutto analoga a quella citata, ma soprattutto offrendosi come una replica esatta di Kaili Blues. Identica, ma diversa.

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spietati.it

By Anam

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