Titolo originale: La vie nouvelle
Nazionalità: Francia
Anno: 2002
Genere: Drammatico, Visionario
Durata: 101 min.
Regia: Philippe Grandrieux
Seymour (Zachary Knighton), giovane militare americano in licenza, accompagna Roscoe (Marc Barbé) nei pressi di Sofia per acquistare prostitute dal mefistofelico trafficante di uomini Boyan (Zsolt Nagy). Effettuata la scelta, i due si recano in un gigantesco hotel-bordello della capitale: qui, tra spettacoli di lap dance e ampia disponibilità femminile, Seymour è fatalmente irretito da Melania (Anna Mouglalis), una bellissima e sfuggente ragazza al soldo di Boyan. Il giovane soldato vuole riscattare la donna e portarla con sé ad ogni costo, anche se questo significa tradire Roscoe.
Nella Logica della sensazione, il filosofo post-strutturalista Gilles Deleuze, mentre analizza l’opera pittorica di Francis Bacon, si chiede quale sia il comune denominatore di tutte le arti. La risposta gli viene da una celebre frase di Paul Klee: «In pittura come in musica, non si tratta di riprodurre o inventare delle forme, ma di captare delle forze [corsivo del redattore]. La celebre formula di Klee “non rendere il visibile, ma rendere visibile” non significa nient’altro.»1 Deleuze, in questo passaggio, si riferisce alla pittura “figurale” di Bacon, ma le sue parole si potrebbero applicare anche a Nuova vita [La Vie nouvelle, 2002] di Philippe Grandrieux. Come Deleuze, infatti, il regista di Sombre [id., 1998] è convinto che nel campo visivo vi siano delle zone inaccessibili all’occhio dello spettatore che il cinema, però, può “pensare”. È proprio a partire dalla capacità della macchina da presa di «captare delle forze» che prende forma l’opera seconda di Grandrieux: l’utopia de La Vie nouvelle è l’esistenza di una «naturalità della visione»2 a cui il cinema può tornare per pensare l’impensabile. Alla ricerca della purezza perduta della visione, Grandrieux afferma che il suo cinema affonda le radici nel Reale. «Il Reale è l’impossibile»3, scrive lo psicanalista francese Jacques Lacan. Per la studiosa di cinema Nicole Brenez, «Il Reale è l’infinito moderno, che non raggiungiamo mai e che talvolta ci raggiunge come un trauma.»4In altre parole, il Reale è tutto ciò che esiste insensatamente, sprigionando nient’altro che il mistero della propria presenza.
Interrogare la presenza delle cose, alla maniera di Cézanne, è dunque il grande obiettivo del cinema di Grandrieux, fin da Sombre (cfr. Lorenzo Baldassari, La presenza del corpo in Sombre). La Vie nouvelle, da questo punto di vista, rappresenta un tassello fondamentale della ricerca del regista francese. Attraverso l’avventura percettiva di uno sguardo che sprofonda progressivamente nella materia-cinema (il regista è anche l’operatore di ripresa), e che retrocede, come in Brakhage, a una «visione pregrammaticale» (cfr. Alessandro Baratti, Sombre: un’introduzione), il film di Grandrieux cerca di captare la forza misteriosa del Reale. Nel realizzare tutto questo, il regista de La Vie nouvelle si rifà esplicitamente a Deleuze, e in particolare a ciò che il filosofo ha scritto nella Logica della sensazione: l’immagine, affinché possa captare forze altrimenti invisibili, e presentificare il mistero del Reale, deve configurarsi come un groviglio di sensazioni, affetti, pulsioni, aperto all’accidente.
Il Reale e la Cosa: «un vuoto che diventa vortice».
Nella sua monografia dedicata a Francis Bacon, Deleuze scrive che la sensazione ha due facce: «una faccia rivolta verso il soggetto (il sistema nervoso, il movimento vitale, l’“istinto”, il “temperamento”) e una faccia rivolta verso l’oggetto (“il fatto”, il luogo, l’evento).»1 Poi, nel capitolo Pittura e sensazione, aggiunge: «forse [la sensazione] non ha alcuna faccia, perché è le due cose indissolubilmente, è, come dicono i fenomenologi, l’essere-nel-mondo [corsivo mio]»1. Secondo il teorico di cinema Raymond Bellour, La Vie nouvelle è un film che è-nel-mondo:
«Una cosa mi sorprende: che in così pochi abbiano capito che il significato di questo film proviene da questa sensazione allarmante di un non dicibile, di un non visto, del desiderio folle di immaginare tutto ciò che ci riempie con il suo rumore e in cui il film ci getta.»5
Essere-nel-mondo, secondo Bellour, vuol dire fare i conti con qualcosa di «non visto» e «non dicibile», con il «desiderio folle» di immaginare qualcosa di non immaginabile: la Cosa di Lacan, ovvero «la via attraverso la quale il Reale mette in scena, esprime, il suo statuto di eccedenza, e di fratture delle pratiche (Immaginarie o Simbolico-linguistiche) di rappresentazione»6 (Bellavita, p. 68). Una sequenza in particolare de La Vie nouvelle è emblematica del tentativo del cinema di Grandrieux di presentificare (e circoscrivere) l’eccedenza del Reale7. Seymour, il protagonista del film, segue il trafficante di prostitute Boyan in una stanza completamente buia. L’uomo è in cerca di Mélania, prostituta di cui si è perdutamente innamorato. Nella stanza, Seymour assiste a uno spettacolo raccapricciante: corpi che copulano e si divorano vicendevolmente. La sequenza è realizzata da Grandrieux con una camera termica: lo spettatore non vede i corpi (la stanza è completamente buia), ma il calore che emettono (il loro fantasma).
La sequenza girata con la camera termica è senza dubbio la più estrema del film di Grandrieux: attraverso un découpage frammentario, fatto quasi interamente di primi e primissimi piani, il regista di Un lac [id., 2008] dà forma alle leggi sconosciute e infernali del desiderio. Scrive lo psicanalista lacaniano Massimo Recalcati: «il volto più scabroso della Cosa non è quello dell’irrappresentabile, […] ma quello di un vuoto che diviene vortice, “zona di incandescenza”, abisso che aspira, eccesso di godimento, orrore, caos terrificante.»8 Mentre la superficie dell’immagine viene frantumata dal découpage, e il rapporto tra “vedente” e “visibile” viene messo in crisi (come nel cinema di Stan Brakhage), i corpi del film, messi di fronte al «vuoto che diviene vortice», alla bordatura del Reale, non potendoli spiegare, urlano, si contorcono, si deformano sotto l’azione dell’out of focus.
Allo stesso tempo, è proprio attraverso la contrazione e la dilatazione delle carni che i corpi del cinema di Grandrieux affrontano il vuoto-vortice delle immagini «non viste» e «non dicibili» del Reale, fuggendo dalla messa-in-quadro (l’illustrazione). Deleuze, in opposizione agli elementi figurativi del quadro, definisce corpi siffatti «Figure». La Vie nouvelle è un film non di personaggi ma di «Figure», di immagini figurali.
La logica della sensazione: il «corpo senza organi».
Nella Logica della sensazione, Deleuze si chiede se sia possibile strappare l’arte moderna alla narrazione senza passare per l’arte astratta. «Non vi è un’altra via, più diretta e più sensibile?»1. Nel capitolo L’isteria, Deleuze risponde a queste domande introducendo la definizione di corpo senza organi:
«al di là dell’organismo, ma anche come limite del corpo vissuto, c’è quello che Artaud, suo scopritore, ha chiamato corpo senza organi. […] Il corpo senza organi è un corpo intenso, intensivo [corsivo mio]. Il corpo non ha dunque organi, ma soglie o livelli.»1
La sequenza de La Vie nouvelle realizzata con la macchina da presa termica, pertanto, è fondamentale nel corpus filmico grandrieuxiano, perché esplicita la vera natura del cinema del regista di White Epilepsy [id., 2012], che non è figurativa ma figurale, plastica, fantasmatica. Il figurale, secondo la definizione data da Jean-François Lyotard in Discorso, figura (1971), è lo spazio del desiderio, è ciò che «fa vedere che cos’è vedere.»9 (J.-F. Lyotard, Discorso, figura, p. 43). Nel testo L’acinema di Lyotard, Paolo Bertetto estrapola una definizione di figurale particolarmente congeniale al cinema di Grandrieux. Secondo lo studioso, infatti,
«il figurale è una concrezione della forza, dell’energetico e del fantasmatico nel film. […] È una concrezione della forza che rende visibile, sensibile [corsivo mio], quello che altrimenti non lo sarebbe.»10
La Vie nouvelle di Grandrieux è un film che eleva a soggetto il processo che porta alla concrezione, alla presentificazione, di queste forze. Nella Logica della sensazione, Deleuze definisce l’opera pittorica di Bacon come figurativamente pessimista ma “figuralmente” ottimista. Nei suoi dipinti, infatti, Bacon rappresenta l’orrore, la sofferenza, l’angoscia; eppure le sue opere, concretizzando il fantasma del Reale e le forze che soggiacciono al processo di creazione pittorica, “liberano” la Figura, annullando, tramite la de-figurazione, gli effetti costrittivi della narrazione. La stessa cosa avviene nel cinema di Grandrieux. La Vie nouvelle, infatti, non si esaurisce nella rappresentazione di una serie di episodi crudeli e brutali: piuttosto, il film di Grandrieux, una volta superato il dato figurativo, indica allo spettatore un’inattesa via d’uscita. Questa via d’uscita è lo spazio figurale della sensazione – è la via che conduce al corpo senza organi.
(Il processo di liberazione della Figura va di pari passo con l’annullamento dei vincoli della narrazione. Il grido, in Bacon (Study for a portrait, 1952) e in Grandrieux, può pertanto tramutarsi in risata, e viceversa. È il sorriso isterico: la via della sensazione, dell’immagine «aptica», del corpo senza organi (il fotogramma out of focus))
Il paragone con la pittura “figurale” di Bacon, allora, non può che imporsi nuovamente. Quello di Grandrieux, infatti, non è soltanto un cinema di corpi “isolati” ed “estratti”: è anche un cinema di traiettorie e direzioni possibili, di immagini sfocate, contratte e dilatate; un cinema di «Forze senza oggetti»1, di linee visive che vibrano, fino a spezzarsi. Un cinema di sensazioni.
(La vibrazione è l’analogo, al cinema, dello spasmo in Bacon: rappresenta l’azione, sui corpi, di forze invisibili)
La sensazione, scrive Deleuze, è unità del senziente e del sentito; è corpo; è vibrazione. «La sensazione, quando raggiunge il corpo attraverso l’organismo, assume un’andatura eccessiva e spasmodica, rompe gli argini dell’attività organica»1 (Logica della sensazione, p. 104). Grandrieux, ne La Vie nouvelle, filma la sensazione: corpi che fuggono da loro stessi, che svaniscono, che si dissolvono nel “corpo” dell’immagine.
La danza di Mélania: il «Diagramma».
Verso la fine de La Vie nouvelle, Seymour sogna di essere nuovamente assieme a Mélania. La donna, in realtà, non potrà mai essere sua: Mélania, infatti, non è che un fantasma, un pupazzo nelle mani del suo protettore, Boyan. La natura fantasmatica della donna diventa esplicita nella sequenza più importante de La Vie nouvelle: Mélania e Boyan ballano sulle note di un pezzo techno pulsante e ipnotico.
La sequenza è fondamentale per diversi motivi: innanzitutto, vi si ritrovano, in nuce, tutti i procedimenti formali del cinema di Grandrieux: le immagini fuori fuoco, l’azione figurale dell’oscurità, il movimento “isterico” della macchina da presa, i corpi che fuggono dalla messa-in-quadro. La sequenza, inoltre, definisce, de facto, il cinema del regista di Meurtrière [id., 2015] come un cinema essenzialmente figurale, plastico. Infatti, la danza, scrive Brenez, «precipita il cinema in un regime figurale […] consiste in una forma esacerbata di coreografia, una forma di interrogazione intensiva dello spazio e del tempo attraverso il corpo.»4 Ne La Vie nouvelle, la danza è quel processo che porta alla presentificazione del corpo senza organi. Mentre sta ballando, Mélania si libera per un momento del peso della narrazione: non più prostituta al soldo di Boyan, la donna è diventata «Colore o Luce»1.
La danza di Mélania pertanto realizza la liberazione momentanea della Figura, che «si contrae o si dilata, […] tende a dissiparsi nella struttura attraverso il contorno, che non agisce più ormai come deformante, ma come una tenda in cui la Figura sfuma all’infinito.»1 L’intuizione straordinaria di Grandrieux, che rende un film come La Vie nouvelle un’opera di capitale importanza, è di aver compreso, come Bacon prima di lui, che raccontare la forza figurale del desiderio vuol dire sconvolgere innanzitutto il processo filmico, trasformarlo in una danza sciamanica, aprendo il dispositivo all’accidente e svelando un corpo, il corpo senza organi, che è intensità, energia, «variazione di livelli di sensazioni»1, vibrazione:
«Il mondo vibra. In ogni cosa c’è una specie di vibrazione immensa. Le nuvole che si spostano, la luce, la materia… siamo proiettati nel bel mezzo del caos. È con questo Reale così potente che abbiamo avuto a che fare quando eravamo appena nati.»11 (Grandrieux)
L’immagine, allora, perché possa condurre lo spettatore a una percezione opaca, confusa, del Reale – al Reale «[con cui] abbiamo avuto a che fare quando eravamo appena nati»11 (Grandrieux) – deve costruirsi come un campo di forze accidentali, un groviglio di sensazioni, affetti, pulsioni. A tal proposito, nella sua analisi della pittura di Bacon, Deleuze introduce il concetto fondamentale di «Diagramma», la cui operazione, nel processo pittorico, è quella di aprire l’immagine all’Altro-da-sé. Più precisamente:
«Il Diagramma è come se, improvvisamente, si introducesse un Sahara, una zona di Sahara, nella testa; […] come se la testa venisse squartata in due parti da un oceano. […] È come il sorgere di un altro mondo. Poiché questi segni, questi tratti sono irrazionali, involontari, accidentali, liberi, casuali. Sono non rappresentativi, non illustrativi, non narrativi. Ma non sono né più significativi né più significanti: sono tratti asignificanti. Sono tratti di sensazione, ma di sensazioni confuse (le sensazioni confuse che ci portiamo dalla nascita, diceva Cézanne).»1 (Deleuze, Logica della sensazione, pp. 167-168)
La riflessione di Deleuze sul Diagramma di Bacon può applicarsi integralmente al cinema di Grandrieux. I tratti asignificanti di cui parla Deleuze diventano, ne La Vie nouvelle, i movimenti spasmodici e incontrollati, accidentali, della macchina da presa: movimenti asignificanti, non rappresentativi, non illustrativi, non narrativi. Il cinema di Grandrieux presentifica direttamente nella carne, nel corpo che progressivamente si dissolve sotto l’azione combinata di out of focus e movimento impazzito di MdP, una zona di libertà, di indiscernibilità tra forme opposte. È questa indecidibilità radicale, questi tratti di «sensazioni confuse che ci portiamo dalla nascita», che il cinema può dire del Reale. Il corpo senza organi, il corpo del fantasma, allora, non è nient’altro che la via, agli estremi della percezione, attraverso cui lo spettatore può accedere a questa zona di indistinzione, di libertà, di possibilità, che caratterizza la materia-cinema, il Reale, secondo l’utopia di Grandrieux.
La nuova vita: il fantasma, la visione e la «notte del corpo».
Il fantasma è senza dubbio una figura chiave del cinema contemporaneo. Nel saggio L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, lo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman dà una definizione di fantasma particolarmente congeniale al cinema di Grandrieux:
«L’œuvre du fantasme […] consiste à attirer les symboles dans un registre qui, littéralement, les épuise : ils s’enrichissent, se combinent jusqu’à une sorte d’exubérance, mais cette exubérance les exténue aussi. L’ “attirance” dont ils ont été l’objet revient donc à leur déformation, leur vocation à l’informe. Freud la nomme une régression de la pensée symbolique vers de pures “images sensorielles” où la représentation, en quelque sorte, retourne à sa “matière première”.»12
La Vie nouvelle tematizza, ricorrendo al figurale (découpage frammentario, fuori-fuoco ecc.), il processo di progressiva asimbolizzazione delle immagini che caratterizza la figura del fantasma secondo Didi-Huberman. Il modo in cui Grandrieux filma Mélania è paradigmatico: la donna è inquadrata per pezzi, il collo, le mani, il seno, le spalle e il volto avvolti nell’oscurità, out of focus, ovvero come se di volta in volta a crearne le fattezze fosse lo stesso Seymour, attraverso la “forza figurale” del desiderio.
Di nuovo, risulta impossibile non riferirsi alla psicanalisi lacaniana. Il primo incontro tra Mélania e Seymour avviene davanti a uno specchio13: Grandrieux inizialmente li inquadra in mezzo primo piano, poi passa, con la successiva inquadratura, a un primo piano del volto di Mélania – non della vera Mélania, bensì della sua immagine riflessa.
Con questa sequenza, Grandrieux invita lo spettatore ad “attraversare lo specchio”, per entrare in un mondo di oscurità, apparizioni fantasmatiche e torbida violenza. Mélania fa da tramite tra i due mondi: riprendendo una celebre frase del Lyotard di Discorso, figura, nelle scene in cui la prostituta è presente La Vie nouvelle «passa dalla veduta [vue] alla visione [vision], dal mondo al fantasma [fantasme]»9 (Discorso, figura, p. 50). Diviso tra narcisismo e fascinazione per l’Altro (l’amore per Mélania), Seymour si ritrova a metà strada tra questi due mondi, tra sparizione (l’out of focus) e presenza della carne. L’uomo, però, non è da solo. L’incipit de La Vie nouvelle esplicita la sfida del cinema di Grandrieux, il desiderio del regista di congiungere, con la sola forza dello sguardo, del suo cinema, vue e vision, mondo e fantasma, spettatore e materia-cinema. Nell’incipit, un gruppo di persone fissa l’oscurità, inquadrato inizialmente da lontano, in campo medio, fuori-fuoco (out of focus); poi la macchina da presa, con inusitata violenza, accompagnata nel suo movimento da improvvise e brutali deformazioni sonore, si avvicina agli occhi, alle bocche, ai volti di tre di loro, finalmente a fuoco, inquadrati in primissimo piano.
Nell’incipit de La Vie nouvelle, il passaggio dalla «veduta» alla «visione» avviene in modo traumatico: uno stacco netto, brutale, un campo-controcampo impossibile.
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«L’incontro con il Reale – scrive Domenico Cosenza nel saggio su Lacan L’inconscio tra metema e reale – è qualcosa che introduce strutturalmente un punto di discontinuità, un punto di vacillazione, un punto di sorpresa.»14 A partire dal falso raccordo dell’incipit, La Vie nouvelle presentifica il punto di discontinuità di cui parla Cosenza, lo spazio che intercorre tra rappresentazione e sensazione, vue e vision, mondo e fantasma. I protagonisti de La Vie nouvelle abitano questo spazio impossibile; gettati nell’oscurità, gridano, tentano una difesa dal Reale, che si presenta loro come un’apparizione fantasmatica e inaccessibile, come un miraggio sensuale, oppure come un’esplosione di violenza brutale e devastante. In tutto questo, l’amore di Seymour per Mélania rappresenta l’ultimo tentativo dell’uomo di accedere al Reale senza esserne annientato. «L’amore ha fame di Reale»15, scrive Lacan. «Love moves the Sun and other stars»16, canta Mélania, in una delle sequenze più evocative de La Vie nouvelle. La figura dell’Altro, nel cinema pulsionale di Grandrieux, è fondamentale: «è infatti dall’Altro – sottolinea il filosofo Piergiorgio Bianchi – che l’amante attende un segno che gli prospetti l’uscita dalla sua condizione di perenne esilio da das Ding, alimentando in lui la promessa di fare-Uno con l’Altro.»17
Questa promessa, nel film, non si realizzerà: l’impossibilità di fare-Uno con l’Altro e di uscire da questa perenne condizione di esilio è la grande tragedia de La Vie nouvelle. Nella sequenza in cui Mélania è vittima delle violenze del cliente sadico, un nuovo stacco di montaggio presentifica la distanza infinitamente piccola (un cut di montaggio!), eppure irriducibile, che vi è tra l’io e l’Altro, tra lo spettatore e la materia-cinema. La visione, infatti, può realizzarsi soltanto attraverso uno “schermo”: il Reale si dà indirettamente, mai direttamente.
(Un cut di montaggio è sufficiente per passare dalla «veduta» alla visione, dal mondo al fantasma. Il fuori-fuoco presentifica la forza del Reale: le immagini del mondo sono troppo intense per poter essere fissate in modo perfettamente definito)
Sequenze come quella qui sopra anticipano la svolta teorica di White Epilepsy e Meurtrière. La Vie nouvelle, infatti, è il primo film di Grandrieux che pone con chiarezza il problema del ritorno all’origine della visione. Se il Reale si dà solo indirettamente, il cinema di Grandrieux sarà tutto nel tentativo di ridurre la distanza tra spettatore e materia-cinema, cercando di captare la presenza delle cose. Presenza che ne La Vie nouvelle è di volta in volta energia, movimento, suono, luce, colore – in una parola, sensazioni. Sensazioni che squarciano lo schermo, realizzando l’utopia de La Vie nouvelle: presentificare nelle immagini e nei suoni del film un campo di forze asignificanti – tratti di sensazioni confuse – che annullino, almeno per un momento, la distanza che separa lo spettatore dalla materia-cinema. «Immediatamente il mondo intero è dato, senza che vi sia il bisogno di spiegare nulla, senza alcuna distanza discernibile, nessuna spaccatura. Un “primo sguardo” – naturalmente questo è un puro fantasma – che è lo stesso che appartiene a un neonato. Tutto è qui, una totalità è circoscritta»18 (Grandrieux).
La Vie nouvelle è un film che cerca di tornare a questa zona originaria di indecidibilità, di fissare sullo schermo l’occhio liberato, il “primo sguardo” del neonato, il momento impossibile in cui lo spettatore è ancora tutt’uno con la materia-cinema: la notte del corpo, «dove il ritmo stesso affonda nel caos, nella notte, dove le differenze di livello [delle sensazioni] sono perpetuamente mischiate con violenza»1 (Deleuze, Logica della sensazione, p. 103).
NOTE
1. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, 2011.
2. Pietro Bianchi, Toni D’Angela, La percezione e lo spazio visivo. Dialogo su Merleau-Ponty, Lacan e il cinema, in La Furia Umana, http://www.lafuriaumana.it/index.php/29-archive/lfu-17/19-pietro-bianchi-toni-d-angela-la-percezione-e-lo-spazio-visivo-dialogo-su-merleau-ponty-lacan-e-il-cinema.
3. Jacques Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo 1975-1976, Astrolabio Ubaldini, Roma, 2006.
4. Nicole Brenez, Travolte en Soi. Danse et circulation des images : Fantasme, Phantasma et Fantasmata, Débordements, 23 giugno 2012, http://www.debordements.fr/spip.php?article92.
5. Raymond Bellour, Bords marginaux, in N. Brenez (a cura di), La Vie nouvelle/nouvelle Vision: à propos d’un film de Philippe Grandrieux, Parigi, Ed. Leo Sheer, 2005.
6. Andrea Bellavita, Schermi perturbanti. Per un’applicazione del concetto di «unheimleiche» all’enunciazione filmica, Vita e pensiero, Milano, 2005.
7. Philippe Grandrieux, Sur l’horizon insensé du cinéma, Cahiers du cinéma hors série: Le siècle du cinema, November 2000.
8. Massimo Recalcati, Le tre estetiche di Lacan, http://www.lacan.com/symptom6_articles/recalcati-estetichedilacan.html.
9. Jean-François Lyotard, Discorso, figura (1971), Mimesis, Milano, 2008.
10. Paolo Bertetto, Il figurale e il cinema, in A. Costa e R. Kirchmayr (a cura di), L’acinema di Lyotard, Aut aut. Vol. 338, Il Saggiatore, Milano, 2008.
11. Philippe Grandrieux, in Cyril Béghin, Stéphane Delorme e Mathias Lavin, Entretien avec Philippe Grandrieux, in Balthazar n°4, estate 2001, p.13.
12. Georges Didi-Huberman, L’Image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, coll. “Paradoxe”, Paris, Minuit, 2002, p. 305.
13. Lo specchio è una figura chiave non solo nella psicanalisi lacaniana (lo stadio dello specchio e lo stadio dell’angoscia) ma anche nel cinema di Philippe Grandrieux. Per un approfondimento, si rimanda all’analisi di Meurtrière.
14. Domenico Cosenza, L’inconscio tra metema e reale, in D. Cosenza e P. D’Alessandro (a cura di), L’inconscio dopo Lacan. Il problema del soggetto contemporaneo tra psicoanalisi e filosofia, http://www.ledonline.it/laboratorioteoretico/allegati/500-inconscio-dopo-lacan.pdf.
15. Jacques Lacan, Il seminario Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino, 2003.
16. A partire dal titolo del film di Grandrieux, che richiama la Vita nova (1293-95), Dante si impone come uno dei riferimenti principali de La Vie nouvelle. Ad esempio, le parole che Mélania pronuncia mentre canta (“Love moves the Sun, and other Stars“) sono una citazione letterale dalla Divina Commedia («L’amor che move il sole e l’altre stelle», Paradiso XXXIII, 145). E ancora, Grandrieux cita un verso del poeta fiorentino in uno scambio di lettere con il cosceneggiatore Éric Vuillard: «Volgiti e ascolta; / che non pur ne’ miei occhi è paradiso» (Paradiso XVIII, 21).
17. Piergiorgio Bianchi, Clinamen. Il percorso della contingenza, in D. Cosenza e P. D’Alessandro (a cura di), L’inconscio dopo Lacan. Il problema del soggetto contemporaneo tra psicoanalisi e filosofia, http://www.ledonline.it/laboratorioteoretico/allegati/500-inconscio-dopo-lacan.pdf.
18. Philippe Grandrieux in Nicole Brenez, The Body’s Night: An Interview with Philippe Grandrieux, http://www.rouge.com.au/1/grandrieux.html.
Recensione: specchioscuro.it