Titolo originale: La última película
Nazionalità: Messico
Anno: 2013
Genere: Commedia, Documentario, Sperimentale, Western
Durata: 88 min.
Regia: Raya Martin, Mark Peranson
La fine del mondo pronosticata dai Maya è vicina e un regista, insieme a una guida locale, decide di esplorare lo Yucatan alla ricerca delle location per quello che sarà il suo ultimo film e l’ultimo film della storia del cinema. S’imbatte in un gruppo di seguaci della new age e mistici Maya e in una giornalista, che ingaggia nel film. Ma il mondo non finisce…
Il panorama del cinema filippino annovera cineasti come Lav Diaz e Brillante Mendoza e vanta una storia e una tradizione che meriterebbe di essere presa maggiormente in considerazione qui da noi. Ma, se questi due cineasti, pur con tutte le rispettive differenze e gli scarti dal canone, si nutrono e si sono nutriti (magari fagocitandola) della storia cinematografica del proprio paese, una figura come quella di Raya Martin – autore di Independencia, presentato nel 2009 a Cannes – eccede questa tradizione e la travalica in maniera stordente e parodica, la segue e allo stesso tempo la de-naturalizza (è il caso per l’appunto di Independencia).
In tal senso, sembra paradigmatico il lavoro fatto da Raya Martin con La última película, presentato nella sezione Onde alla 31esima edizione del Torino Film Festival. Martin si affianca nella regia al critico cinematografico Mark Peranson, direttore della rivista Cinema Scope (il cui ruolo è fondamentale nella promozione del nuovo cinema internazionale, da Miguel Gomes a Albert Serra), che figura anche come produttore. Una co-regia che permette al film di avere un’altissima consapevolezza cinematografica e auto-riflessiva, senza per questo essere meramente cinefila.
Il riferimento di base è quel The Last Movie di Dennis Hopper (per una volta congruamente uscito in Italia con il titolo di Fuga da Hollywood), film del 1971 che segnava il possibile punto di non ritorno della New Hollywood, la deriva nel non-senso e nell’autodafé che avrebbe potuto distruggere tutto il movimento e che contava la collaborazione di alcune delle figure chiave di quel cinema, da László Kovács alla fotografia a Kris Kristofferson che appariva per la prima volta come attore e figurava nella colonna sonora con la canzone Me and Booby McGee, fino allo stesso Dennis Hopper, regista, produttore e protagonista, che dopo aver aperto nel ’69 la strada al successo commerciale di una nuova generazione di registi con Easy Rider (vedi intervista a Emanuela Martini) provava già a bruciare tutto con questa operazione.
Riprendendo alcune proposizioni megalomani lanciate dallo stesso Hopper nel documentario The American Dreamer, Martin e Peranson mettono in scena le vicissitudini di un regista (Alex Ross Perry) che, affiancato da una guida (Gabino Rodríguez), si reca in Messico – e in particolare nello Yucatan – con l’intenzione di girare l’ultimo film della storia del cinema e del mondo in attesa che si avveri la profezia dei Maya.
Ironico e sarcastico, libero e anarchico, anti-narrativo e stordente, romantico e nichilista, La última película mette in scena la passione totale e totalizzante per il cinema, non più per l’appunto legato a una qualche tradizione cinematografica, ma paese e continente a sé stante, mondo in cui tutto si muove secondo un rapporto dialogico e auto-referenziale con alla base però l’idea fondamentale che il cinema sia l’unico modo per raccontare e scardinare il mondo, per comprenderlo al suo interno e allo stesso tempo per farlo esplodere. Non solo The Last Movie di Dennis Hopper – cui il debito è visibile anche dall’idea del viaggio in Sud America, dall’abbigliamento da cowboy dei due protagonisti, dal ricorrere della figura tecnica e retorica della caduta (Hopper nel suo film finiva per essere uno stuntman, Perry si esibisce in una serie di cadute rovinose all’interno di una chiesa), ma anche il dettato bergmaniano di girare ogni film come se fosse l’ultimo, l’ambizione wellesiana di girare il film definitivo della storia del cinema, lo spirito eversivo e surreale del Bressane anni ’70 e un disperato discorso di amorosi sensi sulla pellicola destinata a sparire (del resto, come notava Olivier Père dal Festival di Toronto è stato questo l’unico film ad essere proiettato in 35mm).
Avanguardia e de-costruzionismo, surrealismo e sperimentazione (la pellicola è stata materialmente invecchiata e “rovinata” dai registi, così come si faceva un tempo), La última película è anche un film spassoso e sardonico, con momenti di cinema purissimo (la ripresa ribaltata nello spiazzale dei templi Maya), con tratti da commedia non-sense (l’arresto inspiegabile e poi non spiegato del regista), che arrivano fino a questionare sul senso stesso dell’operazione (il dialogo meraviglioso di notte, davanti a un fuocherello su cui ardono delle pellicole, tra i due protagonisti che riflettono sul loro insensato essere in scena come attori a fare le veci dei registi senza sapere bene di cosa parli il film in cui hanno recitato). E un finale che riporta alla dimensione allo stesso tempo apocalittica e romantica di ultimo uomo-cinema sulla faccia della Terra: sulle note per l’appunto di Me and Bobby McGee e con un paesaggio completamente virato in rosso, il regista-attore si allontana in barca dalla terra e procede verso direzioni sconosciute.
Un film che entrerà nella storia del cinema che fu e che sarà.
Recensione: quinlan.it