
Titolo originale: Eojjeolsuga eobsda
Paese di produzione: Corea del Sud
Anno: 2025
Durata: 132 minuti
Genere: Thriller, Drammatico
Regia: Park Chan-wook
Sinossi:
Un uomo perde improvvisamente il lavoro che definiva la sua identità sociale, economica e morale. Inizia così una lenta discesa in un sistema invisibile di ricatti, scelte forzate e compromessi sempre più estremi. Ogni tentativo di riscatto si trasforma in una trappola, ogni alternativa si rivela illusoria. Quando la sopravvivenza diventa una questione di adattamento totale, l’uomo scopre che l’unica vera costante è la perdita della libertà. Non c’è redenzione, non c’è uscita: c’è solo la scelta obbligata.
Recensione:
No Other Choice è Park Chan-wook nella sua forma più fredda, più crudele e, paradossalmente, più lucida. Non c’è l’eccesso barocco di Oldboy, non c’è l’erotismo malato di The Handmaiden, non c’è nemmeno la violenza esplosiva come elemento spettacolare. Qui la violenza è strutturale, sistemica, invisibile. È un film che non ti colpisce: ti stringe lentamente fino a toglierti il respiro, senza che tu possa indicare il momento esatto in cui ha iniziato a far male.
Il titolo non è una provocazione, è una sentenza. “Nessun’altra scelta” non significa assenza di libertà nel senso spettacolare del termine, ma qualcosa di molto più inquietante: la libertà come concetto formalmente intatto ma praticamente inutilizzabile. Park costruisce un mondo in cui ogni opzione è già stata prevista, neutralizzata, inglobata dal sistema. Il protagonista non è una vittima innocente né un eroe tragico: è un uomo qualunque, ed è proprio questa normalità a rendere il film disturbante.
La Corea di No Other Choice non è futuribile, non è distopica, non è deformata. È iper-reale. Il capitalismo non viene mai nominato come nemico, perché non ne ha bisogno: è l’aria che i personaggi respirano. Il lavoro non è una professione, è una forma di identità ontologica. Perdere il lavoro equivale a perdere il diritto di esistere in modo riconoscibile. Park Chan-wook filma questa caduta con una precisione quasi entomologica, come se stesse osservando un organismo che reagisce a un ambiente improvvisamente ostile.
La regia è asciutta, controllatissima. Ogni inquadratura è funzionale, ogni movimento di macchina è calibrato per ridurre lo spazio di fuga emotiva dello spettatore. Non c’è empatia facile, non c’è musica che ti dica cosa provare. Il disagio nasce dalla ripetizione, dalla burocrazia, dalla logica impersonale che schiaccia lentamente il singolo. È un cinema che non giudica, ma registra. Ed è proprio questa neutralità apparente a essere devastante.
Il protagonista non viene mai trasformato in simbolo astratto: resta sempre un corpo stanco, una mente che cerca di razionalizzare l’inevitabile. La sua trasformazione non è improvvisa, ma graduale. Ogni compromesso sembra inizialmente giustificabile, persino razionale. Park Chan-wook mostra come il male sistemico non abbia bisogno di coercizione esplicita: basta rendere ogni alternativa leggermente peggiore della precedente. Il film diventa così una lezione spietata su come l’etica venga erosa non da grandi scelte drammatiche, ma da una sequenza di “piccoli passi necessari”.
C’è un’umorismo nerissimo che attraversa il film come una corrente sotterranea. Situazioni che, isolate, potrebbero sembrare assurde o persino grottesche, qui diventano normalità amministrativa. Park usa il paradosso non per alleggerire, ma per accentuare il senso di trappola. Ridi, ma subito dopo ti rendi conto che stai ridendo di qualcosa che ti riguarda direttamente.
La messa in scena degli spazi è fondamentale. Uffici, appartamenti, sale d’attesa, strade anonime: luoghi che non hanno identità propria, ma che assorbono quella dei personaggi. Non esiste un vero “fuori”. Anche la casa smette di essere rifugio e diventa un’estensione del controllo sociale. Tutto è permeabile, tutto è osservabile, tutto è misurabile. La privacy non viene violata: viene semplicemente resa irrilevante.
Sul piano tematico, No Other Choice è uno dei film più politici di Park Chan-wook, proprio perché rifiuta il linguaggio della denuncia esplicita. Non ci sono antagonisti riconoscibili, non c’è un “cattivo” da odiare. Il sistema funziona perfettamente anche senza volontà maligna. È questo che lo rende invincibile. Il film suggerisce che il vero orrore contemporaneo non è l’oppressione violenta, ma l’efficienza.
Il finale non concede catarsi. Non offre ribellione, né martirio, né redenzione. È un finale coerente, implacabile, che chiude il cerchio senza bisogno di spiegazioni. Quando i titoli di coda arrivano, non hai la sensazione che la storia sia finita: hai la sensazione che continui ovunque, fuori dallo schermo.
No Other Choice è un film che lavora per sottrazione, ma lascia un segno profondo. Non ti chiede di essere d’accordo, non ti chiede di identificarti. Ti chiede solo una cosa: guardare senza distogliere lo sguardo. E quando lo fai, ti accorgi che non stai osservando un futuro possibile, ma un presente già normalizzato.
Un’opera gelida, adulta, lucidissima. Park Chan-wook dimostra di non aver perso ferocia, ma di averla trasformata in qualcosa di ancora più pericoloso: chiarezza.
