GRAIN (SubITA)

Titolo originale: Buğday
Titolo internazionale: Grain
Paese di produzione: Turchia, Germania, Francia, Svezia, Qatar
Anno: 2017
Durata: 128 minuti
Genere: Fantascienza, Drammatico,
Regia: Semih Kaplanoglu

Sinossi:
In un futuro prossimo segnato da carestie e mutazioni genetiche, la Terra è ormai divisa tra zone protette per le élite e territori contaminati dove il caos regna sovrano. Erol Erin, genetista di alto rango, vive e lavora in una città ipercontrollata, cinta da muri e retta da un regime tecnocratico. Quando un misterioso fallimento nei semi geneticamente modificati minaccia la sopravvivenza delle colture e, di conseguenza, dell’intera umanità, Erol intraprende un viaggio verso le terre desolate alla ricerca di Cemil Akman, un genetista scomparso e considerato eretico. La loro incontro — più spirituale che fisico — diventa una traversata attraverso il deserto, l’identità e il senso stesso della conoscenza.

Recensione:
Con Buğday, Semih Kaplanoglu abbandona la grazia terrena e il realismo poetico della sua “Trilogia di Yusuf” per immergersi in una visione apocalittica che è insieme parabola biblica, manifesto ecologista e poema mistico sul fallimento dell’uomo moderno. Girato in un bianco e nero austero e ipnotico, Grain non racconta semplicemente un futuro in rovina, ma un presente che si è già perso. È un film che si svolge nei crepacci dell’anima più che nelle lande desolate che attraversa, un’opera che chiede allo spettatore di perdersi per comprendere, di smarrirsi per vedere.

Il regista plasma un mondo spoglio, geometrico, fatto di sabbia e silenzio, in cui il linguaggio della scienza è divenuto una liturgia sterile. Gli uomini non cercano più Dio, ma la formula che lo sostituisce. Il seme, fulcro simbolico della storia, è metafora perfetta del paradosso umano: nel tentativo di controllare la vita, l’uomo ne ha distrutto l’essenza. Erol Erin, interpretato con magnetico rigore da Jean-Marc Barr, incarna il razionalismo cieco, l’uomo che crede nella purezza della conoscenza, incapace di concepire che la verità possa nascondersi nell’errore, che il fallimento sia parte integrante del miracolo della creazione.

Kaplanoglu, come un regista-sciamano, costruisce il film come un rito iniziatico. L’andamento è lento, meditativo, spesso estenuante: ogni inquadratura è una preghiera, ogni pausa una ferita. L’assenza di colore amplifica la percezione della morte e dell’attesa, ma anche della possibilità di rinascita. Il deserto diventa un personaggio, una voce muta che inghiotte la civiltà e restituisce solo echi. È il deserto interiore dell’uomo che ha perso la fede nel mistero.

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La seconda parte del film, in cui i due protagonisti vagano come anime in pena tra rovine e rottami, assume i contorni di una Divina Commedia post-tecnologica. Cemil Akman, interpretato da Ermin Bravo, è una sorta di profeta eretico, un uomo che ha oltrepassato il confine della ragione per abbracciare la follia mistica. Il dialogo tra lui ed Erol è il cuore filosofico del film: un confronto tra l’arroganza del sapere e la resa alla grazia, tra il determinismo genetico e la trascendenza del caso.

Buğday è anche un film sul linguaggio — o meglio, sulla sua disintegrazione. Le parole dei protagonisti sono formule, mantra, frammenti di un pensiero che non sa più comunicare. L’umanità ha perso la capacità di nominare le cose, e dunque di comprenderle. Kaplanoglu sembra suggerire che solo attraverso il silenzio e la contemplazione si possa riaprire il contatto con il divino, o almeno con una forma di senso che non sia puramente funzionale.

La potenza visiva del film è vertiginosa: gli scenari turchi e bosniaci, fotografati da Gunnar Fischer con luce ascetica, evocano Tarkovskij e Béla Tarr, ma anche l’essenzialità pittorica di Dreyer. Il vento, la sabbia, le ombre diventano linguaggio. Buğday non è un film da comprendere, ma da attraversare come un deserto dello spirito.

Kaplanoglu realizza un’opera fuori dal tempo, priva di compromessi, che dialoga con la tradizione sufi e con la filosofia esistenziale occidentale. È un film che invita alla riflessione sulla caducità della civiltà tecnologica e sul bisogno di ritrovare un ordine naturale e spirituale perduto. Non cerca di commuovere, ma di spogliare lo spettatore, di denudarlo come il vento fa con la pietra.

Il titolo stesso, Buğday — “grano” — diventa una preghiera laica. Il seme è ciò che muore per rinascere, ciò che viene sepolto per germogliare. L’uomo, invece, ha dimenticato come rinascere, perché ha sostituito la fede con la formula, la terra con la macchina. Buğday è la cronaca della nostra estinzione spirituale, ma anche il fragile tentativo di immaginare una redenzione attraverso il ritorno alla semplicità, alla sostanza, al silenzio.

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È un film che non consola, ma illumina. Lento come la crescita di una pianta, ma denso come una preghiera notturna. Kaplanoglu non ci dice che la salvezza esiste: ci ricorda che forse non la meritiamo, ma possiamo ancora desiderarla.

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