Titolo originale: Terminal USA
Paese di produzione: USA
Anno: 1993
Durata: 54 min.
Genere: Commedia, Drammatico
Regia: Jon Moritsugu
Terminal USA (1993), diretto da Jon Moritsugu, è un film indipendente selvaggio e provocatorio che esplora il disfacimento di una famiglia asiatica americana apparentemente tradizionale ma segretamente disfunzionale. Ambientato in un sobborgo qualunque, il film segue le vite intrecciate di un fratello gemello tossico e ribelle, Marvin, e del suo opposto, il gemello “perfetto” Kazumi, un secchione moralista. Attorno a loro ruotano il padre violento, la madre bigotta e repressa, la sorella promiscua, oltre a un poliziotto fuori di testa, uno spacciatore paranoico e un turbinio di personaggi assurdi che amplificano la follia. Tra droga, sesso, alienazione culturale e scontri generazionali, il film si sviluppa come un trip psichedelico e un’opera satirica, sviscerando il mito della “famiglia modello” e smascherandone i lati più oscuri e grotteschi.
Se non hai mai sentito parlare di Jon Moritsugu, Terminal USA è un ottimo punto di partenza per capire cosa significhi prendere il cinema indipendente anni ’90, scuoterlo come una lattina di soda e farlo esplodere in faccia al pubblico. Questo film è tutto tranne che “ordinario”. È sporco, disturbante, caotico, ma incredibilmente divertente, sempre che tu abbia un senso dell’umorismo abbastanza oscuro da apprezzarlo.
La trama, già di per sé assurda, è il pretesto per mettere in scena una critica feroce e senza filtri all’idea di “famiglia tradizionale” e al sogno americano. I protagonisti sono volutamente sopra le righe: Marvin è il gemello anarchico e autodistruttivo, un perfetto simbolo della ribellione senza freni, mentre Kazumi rappresenta l’altro lato della stessa medaglia, il figlio perfetto che implode sotto la pressione delle aspettative. Entrambi, a modo loro, sono vittime di un sistema che soffoca le identità individuali in nome di una facciata di perfezione.
Moritsugu gioca con la rappresentazione degli asiatici americani, ribaltando ogni stereotipo. Dimentica i cliché del “modello di integrazione”: qui abbiamo personaggi che fanno uso di droghe, si abbandonano a comportamenti autodistruttivi e si lanciano in conversazioni oscene. La sorella della famiglia è un’esplosione di sessualità senza freni, un contraltare perfetto alla madre, che invece è schiava della sua devozione religiosa, trasformata in ipocrisia pura.
Visivamente, il film è un trip: colori ipersaturi, angolazioni folli, tagli bruschi. Non c’è nulla di “pulito” o convenzionale nella regia di Moritsugu, e questo è esattamente ciò che rende il film così efficace. Sembra quasi che ogni scena sia costruita per tenerti costantemente fuori equilibrio, come se stessi guardando un incubo ad occhi aperti… ma uno di quelli in cui, nonostante tutto, ti trovi a ridere a crepapelle.
E poi c’è il tono. Terminal USA non si prende mai troppo sul serio, anche quando affronta temi pesanti come l’alienazione culturale, il razzismo interiorizzato e la disillusione generazionale. È un film che ride in faccia al dolore, trasforma il disagio in intrattenimento e si diverte a confondere lo spettatore.
Un altro elemento che spicca è la colonna sonora, un mix di punk, rock lo-fi e suoni abrasivi che si fondono perfettamente con l’energia del film. È come se la musica fosse un personaggio a sé stante, sempre pronto a sottolineare la follia delle situazioni.
Certo, non è un film per tutti. Se cerchi una narrazione lineare, dialoghi raffinati o personaggi “piacevoli”, rimarrai probabilmente sconvolto. Ma se sei disposto a farti trascinare in una spirale di caos creativo, Terminal USA è un’esperienza che difficilmente dimenticherai.
Moritsugu ha creato un film che è un pugno nello stomaco, ma con il sorriso. È sporco, ribelle e tremendamente autentico, un’opera che incarna lo spirito del cinema indipendente senza compromessi. Con una durata di appena 55 minuti, è una scarica di adrenalina che lascia il segno.