THE MANDELA EFFECT (SubITA)

Titolo originale: The Mandela Effect
Paese di produzione: USA
Anno: 2019
Durata: 80 min.
Genere: Drammatico, Fantascienza, Thriller
Regia: David Guy Levy

Un uomo diventa ossessionato da fatti ed eventi che sono stati collettivamente fraintesi da migliaia di persone. Credendo che i fenomeni siano il sintomo di qualcosa di molto più grande, comincia a rimettere in discussione la stessa realtà che lo circonda.

L’antipsichiatria ci ha insegnato quanto sia problematico classificare le persone come “malate”, non è tempo di usare questa saggezza anche per quel che riguarda il nostro mondo?

The Mandela Effect è un film di fantascienza uscito nel 2019 in cui il protagonista, dopo la morte della giovanissima figlia, diventa ossessionato da ricordi personali che non sembrano coincidere con le testimonianze documentali. Facendo ricerche in rete, scopre il fenomeno (realmente esistente) che dà il titolo al film, cioè l’effetto Mandela, così nominato per via dell’avvenimento storico – o meglio il falso ricordo dell’avvenimento – che costituì l’occasione in cui il fenomeno venne notato per la prima volta.

Nelson Mandela morì il 5 dicembre del 2013 all’età di 95 anni. Cinque giorni dopo si svolse una spettacolare commemorazione pubblica nello stadio di Johannesburg, in mondovisione e con la presenza di molti leader politici. Il problema è che nell’esperienza di molte persone quello non fu il primo funerale di Mandela. Fiona Broome per esempio, una scrittrice e blogger con un forte interesse per il paranormale, già alcuni anni prima era rimasta sorpresa nell’apprendere che Mandela era ancora in vita, mentre a lei sembrava di ricordare una sua morte avvenuta addirittura negli anni Ottanta del Novecento, quando l’attivista ancora si trovava in carcere, e il conseguente funerale.

Quello che poteva sembrare un banalissimo errore di memoria, però, si trasformò in qualcosa di più interessante quando la Broome scoprì per caso — durante un raduno di appassionati di fantascienza — che molte altre persone condividevano lo stesso ricordo. Ancora più persone vennero fuori una volta che la Broome cominciò a parlarne sul suo blog, dando inizio all’interesse per il fenomeno oggi noto col nome appunto di “effetto Mandela”; ma il fenomeno non riguarda solamente il fu presidente sudafricano, ma anche molti altri episodi che si sono via via moltiplicati e che si sarebbero svolti, nel pensiero di chi li rammenta, in modo diverso da come vengono ufficialmente narrati. Fra gli esempi menzionati dal film vi sono i protagonisti di una serie di libri per ragazzi, gli orsi Berenstain, che però una volta (in molti sono disposti a giurare) si chiamavano invece Berenstein (con la “e”), oppure l’omino sulla scatola del Monopoli che tanti ricordano portare un monocolo in realtà assente. In casi più elaborati alcuni si ricordano intere trame e interpreti di film che non risultano essere mai stati realizzati (come l’ormai mitico Shazaam).

Le spiegazioni più comuni fra gli adepti per queste discrepanze fra ricordi e testimonianze documentali chiamano in causa la meccanica quantistica e una teoria degli universi paralleli che in qualche modo riuscirebbero a influenzarsi a vicenda. Un esperimento andato male con l’acceleratore di particelle al Cern di Ginevra avrebbe provocato il collasso di un universo nell’altro, o lo scontro di due universi. Nel film invece il protagonista si convince che il mondo in cui vive è una simulazione, un’illusione generata da un qualche software. Credo sia abbastanza inutile aggiungere dettagli perché la natura pseudo-scientifica di simili speculazioni pare evidente. Quello che interessa qui non è entrare nel dettaglio delle razionalizzazioni forzate che le persone inventano per giustificare credenze palesemente in contrasto con la realtà, ma piuttosto comprendere l’intima natura di un tale sistema di pensiero, da un punto di vista che potremmo definire “fenomenologico”, usandolo poi come spunto e occasione per avere uno squarcio su un disagio più grande e importante.

L’effetto Mandela (un fenomeno tutto sommato privo di importanza) potrebbe costituire un buon punto di partenza perché sembra suggerire un’alterazione del senso del tempo, ed è proprio il “tempo vissuto” come forma a priori della sensibilità che nella prospettiva fenomenologica costituisce la struttura che definisce il nostro modo di esistenza; sono i modi di vivere e percepire il passato, il presente, e il a renderci come siamo, mentre certe forme di disagio mentale ed mancata si rivelano come un’alterazione patologica di questi rapporti. Una persona può “vivere troppo” nel passato, assorbita da sensi di colpa per cui il futuro è concepito solo come espiazione e disastro, o al contrario può vivere in un’esistenza appiattita sul presente.

Una cosa che si può sottolineare, a proposito dell’effetto Mandela, è una certa incongruenza, ovvero incapacità di affrontare davvero le conseguenze di una particolare credenza e quindi di inserirla all’interno di un sistema coerente. La particolarità del fenomeno è che ci si ricorda di un funerale che non c’è mai stato, ma non si ha nessun ricordo di un mondo – che eppure dovrebbe essere stato significativamente diverso dal nostro – nel quale Mandela è morto con venti anni di anticipo. I ricordi sono tutti atomizzati, il mondo è fatto di eventi e cose che non hanno alcuna relazione tra di loro, per cui Mandela può morire ma per il resto il mondo è identico a quello in cui egli è ancora vivo, oppure si differenzia per altre piccole sciocchezze senza conseguenze profonde, come il fatto che una nota marca di barrette di cioccolata si scriva in un modo piuttosto che in un altro. Questo mentre nessuno (per fare un esempio estremo) ha l’impressione di ricordare, nell’apprendere che un suo congiunto è morto, che questo in realtà sia avvenuto molti anni prima (“ma come, io mi ricordo benissimo di essere già stata al suo funerale, cinque anni fa!”). E ovviamente il fatto che gli americani ricordino la morte (non) avvenuta di un presidente sudafricano ma non quella di un presidente statunitense è una manifestazione piuttosto lampante di etnocentrismo culturale.

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Si tratta di una specie di fenomeno opposto a quello alla base della recherche proustiana: là la reminiscenza di un fatto insignificante, l’odore della madeleine, scatenava la prepotente esperienza di un passato interamente rivissuto e quindi reinterpretato, “ritrovato” e pieno di senso; qua la ricerca si arresta subito, perché non c’è nulla da ritrovare e nulla a cui dare un senso. Vi è l’ostinazione dell’affermare che, poiché noi ci ricordiamo una cosa, allora il nostro ricordo non può essere scorretto, deve essere riconosciuto come veritiero, ma allo stesso tempo vi è una sorta di rifiuto di dare un effettivo valore al ricordo collegandolo ad altre nostre esperienze del passato o al nostro presente. Si tratta di una verità alternativa ma innocua, inerte, che non danneggia veramente nessuno.

Fiona Broome, colei che ha coniato il termine “effetto Mandela”, è una ricercatrice del paranormale e in particolare dei fantasmi. Potremmo vedere un nesso fra l’interesse per i fantasmi e l’effetto Mandela proprio in relazione al rapporto col passato, che viene da un lato “riproposto” in maniera potenzialmente sconvolgente, dall’altro neutralizzato. La perdita di un defunto viene compensata dal suo ritorno sotto forma di spirito, il che potrebbe essere da un lato consolante ma anche formidabile, se non fosse per il fatto che non è davvero necessario relazionarsi col defunto, perché egli è al tempo stesso e assente, aleggia come un’ombra intorno a noi, ci procura una sensazione di sicurezza e familiarità, ma solo perché non ci rimprovera quando camminiamo sul pavimento appena lavato. Per quanto detto finora, non possiamo escludere che queste forme di credenze “bizzarre” piuttosto che patologiche siano addirittura terapeutiche, che siano dei modi tutto sommato efficaci e innocui di affrontare una certa ansia legata al passato. Resta da capire la natura di quest’ansia: perché sentiamo il bisogno di provenire da un passato diverso da quello che ha prodotto il nostro presente? Da cosa cerchiamo di proteggerci? Ed è possibile che questa stessa ansia si possa manifestare in maniere più inquietanti?

L’ansia di cui parliamo potrebbe in realtà riguardare il presente, piuttosto che il passato: un’ipotesi plausibile è che, visto che non riusciamo a capire come siamo arrivati all’insoddisfazione presente, non essendo in grado di ricercare le cause del nostro malessere nel nostro effettivo passato, allora attribuiamo le radici di questo a un passato che non è più il nostro. Questo ci consente di rimanere puri e incontaminati rispetto a un mondo dal quale vogliamo prendere le distanze, e nello stesso tempo non ci impegna oltre, ci assolve da ogni responsabilità: noi non apparteniamo davvero a questo mondo e quindi non siamo tenuti ad aggiustarlo. Il nesso tra perdita dei cari ed effetto Mandela è esplicitato anche nel film, con l’unica differenza che nel film il protagonista, una volta convintosi che il mondo è un’illusione, riesce in qualche modo a distruggerla ma solo per costruirne una più soddisfacente per lui.

Tutto questo potrebbe servire a inquadrare l’effetto Mandela come una manifestazione marginale di un disagio più generalizzato che è al tempo stesso abbastanza tipico del nostro tempo: la percezione del mondo che ci circonda, la “civiltà occidentale”, come malata, corrotta, decadente, lontana dalla natura quindi dalla verità e dalla salute. Al tempo stesso però ci porta in una nuova direzione: ci chiedevamo se certi sistemi di credenze non fossero la manifestazione di un disagio, ma contemporaneamente ci stiamo accorgendo che questi potrebbero essere, in realtà, la risposta al disagio, un tentativo di cura, una terapia. Ci troviamo allora in un classico dilemma -gallina: che cosa viene prima? Il male o il tentativo di rimediarvi? ——- Articolo completo quì

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