TYKHO MOON (SubITA)

Titolo originale: Tykho Moon
Nazionalità: Francia, Germania, UK
Anno: 1996
Genere: Fantascienza
Durata: 102 min.
Regia: Enki Bilal

La famiglia McBee ha il potere assoluto in una città del futuro, una città simile a Parigi ma divisa in settori. Tutti gli uomini della famiglia sono afflitti da una misteriosa malattia e hanno bisogno urgente di un trapianto di organi. Il donatore perfetto, Tykho Moon sembra essere stato ucciso ma invece è ancora vivo. La famiglia McBee lo cerca ma lui riesce a fuggire.

In un futuro non troppo lontano — o forse in un passato mai realmente avvenuto — la Luna è diventata un pianeta-carcere, un luogo di esilio per le scorie della civiltà, mentre la Terra si consuma nella malattia e nella decomposizione morale. Tykho Moon è un film che sembra provenire da un universo parallelo, costruito con materiali di memoria e allucinazione. Enki Bilal, celebre per la sua estetica grafica da autore di fumetti e per la sua capacità di scolpire mondi apocalittici, crea un’opera che non è semplice cinema di fantascienza, ma un vero e proprio delirio architettonico, dove carne e metallo, identità e artificio si fondono in un organismo inquietante e poetico.

La trama, solo in apparenza lineare, ruota attorno a una figura enigmatica: Tykho Moon, colui che forse può salvare un dittatore morente attraverso un trapianto, o forse il simbolo stesso della ribellione alla putrefazione del potere. In questa Parigi futuribile, riprodotta come un incubo meccanico e bluastro, gli esseri umani si muovono come pezzi di scacchiera su un tavolo che è il corpo stesso della città. Tutto sembra disegnato da un dio stanco: la pioggia cade verticale come aghi, le facce sono maschere di cera, le parole si dissolvono prima di raggiungere l’orecchio.

Bilal costruisce un mondo che respira la malattia del secolo, dove il corpo è la frontiera ultima della guerra tra organico e sintetico. L’estetica è cupa, dominata da colori freddi e decadenti: il blu, l’argento, il nero che sembra muffa digitale. La regia procede per tableaux vivants, sequenze che ricordano quadri futuristi o pagine animate di un fumetto che si rifiuta di chiudersi. Ogni scena è un enigma visivo, una citazione di un mondo che non esiste più ma che continua a infestare i sogni dei sopravvissuti.

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Il tono è quello del cinema post-industriale, dove la tecnologia non è più promessa di salvezza ma condanna estetica. Bilal anticipa temi che diverranno centrali nel cinema cyberpunk europeo: la clonazione, la memoria come virus, l’identità come costruzione manipolata. Ma lo fa con un rigore lirico, da pittore dell’apocalisse. La narrazione si disgrega volutamente, come se il film stesso fosse un corpo infetto da un linguaggio morente. È un noir senza detective, una storia d’amore senza vita, una distopia che non cerca redenzione.

In Tykho Moon i personaggi non sono persone, ma riflessi di un’idea: la malattia come metafora del potere, la pelle come archivio di errori genetici, l’amore come ultimo atto di resistenza contro la dissoluzione del mondo. C’è un senso costante di prigionia, di isolamento, di claustrofobia cosmica: tutto ciò che esiste è intrappolato in una spirale, un labirinto che Bilal osserva con l’occhio di un demiurgo cinico ma ancora innamorato della bellezza.

La sua Parigi lunare è popolata da corpi plastici, da volti tristi e magnificamente spenti, da automi che ricordano di essere stati vivi. Il film respira la stessa aria dei sogni di Jodorowsky, delle rovine metalliche di Tarkovskij, del gelo emotivo di un Lynch europeo. Eppure Tykho Moon non assomiglia a nulla di già visto: ha una sua voce, fatta di silenzi che pulsano e parole che evaporano come segnali di fumo.

Si esce dal film con la sensazione di aver assistito non tanto a una storia quanto a una visione collettiva, a un rito che fonde cinema e pittura, carne e architettura, filosofia e febbre. È un’esperienza che chiede allo spettatore di arrendersi, di accettare la confusione come parte del viaggio. Bilal non racconta: disegna. Non spiega: suggerisce. Non filma: scolpisce la luce nel buio.

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Tykho Moon è un sogno febbrile sulla fine dell’umano e sull’ossessione di ricostruirlo. Un film che parla del corpo come tempio e come prigione, della memoria come condanna e come unica via di salvezza. È la dimostrazione che il cinema può ancora essere arte totale, un linguaggio che non deve piacere, ma colpire — come un’eclissi che acceca lentamente.

By Anam

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