Titolo originale: El auge del humano
Titolo internazionale: The human surge
Nazionalità: Argentina
Anno: 2016
Genere: Drammatico, Sperimentale, Visionario
Durata: 90 min.
Regia: Eduardo Williams
Formicai digitalizzati
A Buenos Aires, Exe, 25 anni, ha appena perso il lavoro e non ne cerca un altro. Vicini e amici gli appaiono strani come sempre. Su Internet incontra Alf, un ragazzo originario del Mozambico, ugualmente stufo del proprio lavoro, che ne contatterà un terzo, Archie, fuggendo con lui nella giungla. Attraverso la foresta e il folto della vegetazione, Archie segue delle formiche fino al formicaio. Una di loro si allontana dal tracciato e incontra Canh, un filippino, seduto in cima a una montagna di terra; quest’ultimo tornerà presto nella propria città, bella e strana, dove anche lui ha un lavoro ingrato.
La storia del cinema è in uno dei suoi periodi più cupi e strani: la conquista da parte del digitale del territorio di immagini che prima appartenevano alla pellicola ha creato una vera e propria rottura. C’è chi, come il Tarantino di The Hateful Eight, punta tutto sul recupero archeologico, sull’uso della pellicola come ripresa di un’estetica che, a differenza di quella effimera del digitale, può essere destinata a rimanere come bellezza sempiterna; c’è invece chi sfrutta la digitalizzazione dei mezzi proprio per destrutturare il mezzo stesso, asservendolo ad anti-discorsi che resistono e vivono nelle immagini. In un’epoca in cui il linguaggio è in crisi (e lo dimostra anche l’ultimo Godard), e in cui la crisi è totale e include la nostra umanità, la nostra economia, i nostri sogni e la nostra maniera di vivere, proprio questa crisi può diventare qualcosa che in realtà fa bene al cinema, perché lo fornisce di argomenti di cui parlare, ambiguità verso cui ribellarsi, storture verso cui ruggire: è il cinema stesso a porsi ancora una volta come occasione di riflessione e ad autoanalizzarsi, fra il materico e il digitale e, per estensione, fra l’uomo e la tecnologia.
È questo il mondo in cui sguazza El auge del humano, il primo lungometraggio di Eduardo Williams presentato a Locarno nel concorso Cineasti del Presente, all’interno del quale ha vinto il Pardo d’Oro e il premio per il miglior regista esordiente. El auge del humano è pornografia ed è sguardo del pornografo (e dello spettatore), è pellicola ed è digitale, è internet ed è contatto umano; El auge del humano è crisi e commento sulla crisi, è vita, strada, natura e pixel.
Tripartendo la pseudo-narrazione in tre parti che differiscono per location e modalità di girato (due in pellicola, una in digitale), l’argentino Eduardo Williams ha composto uno dei film più interessanti della 69esima edizione del Festival del Film Locarno, perfetta continuazione del discorso cominciato con il corto Pude ver un Puma (2011). Si continua l’idea di un inseguire la “gioventù bruciata” sudamericana; ma dove nel cortometraggio precedente si inseguiva un fantomatico puma fino ad una foresta che inghiotte le vite dei ragazzi, in El auge del humano non c’è nessuna rincorsa verso un qualcosa di idealizzato o interno alla narrazione, ed è anzi la macchina da presa che insegue i personaggi attraverso le loro ritualità più o meno morbose. Exe, il protagonista della prima sezione del film, cammina attraverso una strada alluvionata imperterrito e menefreghista, legato quasi carnalmente al cellulare con cui comunica con il mondo, non rendendosi conto che il mondo (o la natura) coincide con ciò che sta collassando rovinosamente attorno a lui. Perso il lavoro, si rifugia con gli amici in una maniera alternativa di guadagnare, che lo disumanizza e lo digitalizza: le live video pornografiche gay, che tiene in piedi insieme ad amici eterosessuali costretti a praticare fellatio solamente per qualche soldo in più, eliminandosi sessualmente, eliminandosi umanamente di fronte al potere economico dell’informatica e dello sguardo dell’altro attraverso di essa.
E la cinepresa, prima continuamente mobile (al punto da incontrare più volte lo sguardo in macchina dei passanti durante il lungo inseguimento di Exe), si blocca su questo atto sessuale respingente e finto, inquadrandolo con lo stesso voyeurismo malato e amatoriale che caratterizza la webcam pornografica. Quando Exe e i suoi amici si allontanano e si rintanano nel buio della foresta, riecheggiando forse il pessimismo di Pude ver un Puma, si ha l’idea definitiva che il titolo di El auge del humano sia un titolo colmo di tristezza: l’apogeo dell’umano è il punto più lontano da esso, e quando Eduardo Williams filma degli esseri umani in maniera intima e realistica significa che la realtà umana attuale è una realtà lontana dall’uomo – un uomo che si è sconfitto da solo, ha perso da solo, è vittima di sé stesso in maniera buia e forse irreversibile.
Attraverso una webcam gay come tante altre (e, come tante altre, composta da eterosessuali) Exe osserva un ragazzo del Mozambico, Alf. Ma lo sguardo digitale della webcam, con un gioco di montaggio geniale, si tramuta dal semplice punto di vista di un computer a quello della cinepresa del regista, che segue Alf e il suo amico Archie interagire in un mondo buio fatto di cose viste e cose non viste, mondi soleggiati, vicoli e case immersi completamente nell’oscurità. Williams, con questo cambio di punto di vista, fa la coraggiosa scelta di ammettere come il cinema, mezzo ormai digitalizzato come tutti sappiamo, non è poi così distante dallo sguardo pornografico di internet: anche il regista segue i ragazzi nel loro intimo, nella parte della loro vita che altrimenti sarebbe invisibile. È l’obiettivo della cinepresa che li rende vivi? Alf e Archie se ne vanno, scappano nella vegetazione, parlano del passato, del presente, del futuro e di quanto questi nella loro mente non esistano. Passare attraverso il mondo e la vegetazione non risulta un’esperienza spaesante, ma anzi una cadaverica e spenta passeggiata, in cui l’unica cosa che rimane costante è la sensazione di essere inseguiti. E a inseguirli è la macchina da presa, che li osserva, che li ossessiona e li assilla; è il cinema che continua a spiarli e a disturbarli, li critica con moralismo, non li lascia stare, come nel finale dell’horror It Follows (2014) di David Robert Mitchell. Quando Alf si ritrova in mezzo al niente vicino ad un formicaio, la macchina da presa si concentra su di esso: seguono dunque inquadrature ravvicinate delle formiche che interagiscono, corrono, si muovono nella loro bassezza sporca in mezzo alla natura. Rimangono a contatto con il terreno e con l’ambiente, ma perseverano nella sporcizia, come gli insetti che appaiono all’inizio di Velluto Blu (1986) dopo l’infarto del padre di Jeffrey: il simbolismo che lì si ricollegava all’estetica del surrealismo buñueliano per mostrare la corruzione dell’uomo e il suo lato oscuro sempre in agguato nel mondo normale, qui è invece rappresentazione di un’umanità generalizzata, di una generazione che vive, si muove, si sporca e muore come quelle formiche.
La macchina da presa si solleva dal formicaio, e la modalità cinematografica cambia di nuovo. Il girato in 35mm, stavolta senza la grana che caratterizzava la prima parte del film, è adatto per mostrare un ambiente sempre naturalistico ma adesso rigoglioso: una foresta nelle Filippine, attraverso la quale passa Canh. Va con amici (o parenti?) a fare un bagnetto in mezzo alla foresta, in una specie di liquido amniotico, tornando all’origine dell’immagine e all’origine dell’uomo, ma rimane la dipendenza dall’informatica: anche nel verde del mondo (il mondo vero, non quello digitalizzato) c’è la necessità di internet, di una connessione virtuale e non reale. Pure i bambini ragionano in funzione della tecnologia, muovendosi per fisime mentali su quanti gigabyte pesa l’animo umano. La ricerca disperata della connessione umana attraverso il non-umano del digitale è mostrata in immagini attraverso Canh che, in un villaggio filippino, cerca un internet point, mostrando una quotidianità più che mai triste e bloccata nella sua versione in pixel. Gli schermi sono venati ma onnipresenti e sempre funzionanti, dalla Buenos Aires inondata al profondo della giungla, e anche quando internet smette di funzionare, comunque, prima o poi tornerà a influenzarci e noi continueremo a dipendere da esso. Siamo noi a creare l’immagine (la tecnologia) o ormai è essa che crea noi, ci condiziona, ci controlla? La speranza sta probabilmente nell’uomo stesso: perché è l’uomo che la tecnologia la crea, la accende, la spegne e la aggiusta; ed è su questo che si concentra l’enigmatico epilogo, appartenente ad un’altra scenografia ancora, un mondo reale ma solo tecnologico, in cui vivono i tecnici. I tecnici, in questo mondo, sono Dio. E la voce del computer, che ripete ossessivamente “okay” e che si manifesta visivamente come una luce disumana sulla quale scorrono i titoli di coda, è il sostituto postmoderno del mutismo di Dio, è la risposta data dall’immateriale per accettare il materiale. È il triste monito della distanza dei giovani dai giovani; almeno, nel mondo sfortunatamente realistico composto da Eduardo Williams, che con quest’opera prima intensa e feroce ha senza dubbio creato uno dei film più riflessivi di Locarno 2016, una delle visioni più cupe e sperimentali dell’anno, uno degli sguardi più intelligenti nella fanghiglia magmatica del cinema figlio della crisi corrente.
Recensione: quinlan.it
I’m A Fucking Dreamer man !