SAMSARA (SubITA)

Titolo originale: Samsara
Paese di produzione: Spagna
Anno: 2023
Durata: 113 min.
Genere: Drammatico, Spirituale
Regia: Lois Patiño

Presentato in Encounters, alla Berlinale 2023, Samsara è la nuova opera del regista galiziano Lois Patiño che affronta il tema della reincarnazione, in chiave di tibetano, seguendo spiriti che viaggiano tra Laos e Tanzania. Il filmmaker usa sapientemente la pellicola 16mm per creare gli effetti cromatici tipici del suo cinema, i viraggi, i colori che sbavano, arrivando a un trip allucinatorio che visualizza la fase che intercorre tra il trapasso e la rinascita di una nuova vita.

Sindrome ascetica
Laos. Decine di adolescenti vivono e studiano insieme nei templi buddisti. Un giovane attraversa il fiume ogni giorno per leggere un testo a una donna anziana come guida per la sua strada per l’aldilà. Quando la donna muore, il suo spirito inizia un viaggio sensoriale verso la reincarnazione nel suo prossimo corpo. Tanzania. In un villaggio di pescatori dei bambini giocano con una capretta. Mentre sono in una spiaggia, l’animale fugge e inizia la ricerca per trovarlo. [sinossi]

Ci sono ancora registi che si ostinano a usare la pellicola, in 16mm, un’attitudine abbastanza diffusa nel cinema di ricerca iberico. Non vi sfugge il galiziano Lois Patiño con il suo ultimo film, Samsara, presentato a Encounters della Berlinale 2023. La pellicola serve all’autore per ricreare un effetto estetico di cinema del passato, ma anche per realizzare i suoi noti effetti cromatici, i suoi tipici viraggi, come in Montaña en sombra, Noite Sem Distância e in Lúa vermella. La pellicola è un qualcosa di fisico come la tela di un quadro dove è possibile mescolare i colori, amalgamare le tempere. Capitava spesso di vedere, quando si proiettava ancora in pellicola nelle cineteche, molti film degli anni Settanta virati in rosso per sindrome acetica. Quella che era considerata una compromissione intollerabile può in essere vista come un modo diverso di fruizione di un’opera. La pellicola serve a Lois Patiño per mettere in scena esseri viventi e loro spiriti, sovraesposizioni e sovrimpressioni, con immagini come di mandala, o della ruota del saṃsara, in osservanza al concetto del tibetano, citato nel film, che vuole che siamo tutti luce.

Samsara comincia con l’arancione, con gli abiti dei giovanissimi novizi monaci buddhisti nel Laos, in un villaggio di etnia hmong. Sono ragazzini che il regista mostra come affatto avulsi dal contesto contemporaneo, secondo lo stereotipo che li vorrebbe ascetici. Discutendo con il loro amico coetaneo, che lavora come traghettatore, parlano di internet e confrontano i loro per il futuro: chi vorrebbe studiare tecnologie di informazione all’università, chi vorrebbe fare il rapper. I loro principi filosofici sono spesso esposti in forma di dialogo tra loro, in campi controcampi, evitando così effetti didattici. C’è poi una donna anziana cui il ragazzo che fa il barcaiolo legge brani dal Bardo Tödröl Chenmo, il tibetano dei morti. La donna sogna la sua futura incarnazione nel mare, principio caro al regista galiziano, come una stella marina, in ciò punita e relegata alla vita in un essere inferiore. I bambini della seconda parte del film giocheranno in spiaggia anche con una stella marina, creatura estremamente fragile, che si può prendere come una conchiglia, ignorando che sia un essere vivente.

Si parla del pensiero del morto e in effetti la concezione buddhista tibetana prevede che l’anima sia cosciente durante la morte e durante il bardo, la fase che intercorre tra morte e rinascita. Il bardo viene messo in scena da Patiño tra la prima e la seconda parte del film come un viaggio psichedelico, un’alternanza di schermo nero interrotto da luci colorate, come dei lampi, di vari colori. Un’esperienza che ricorda i film astratti di Peter Kubelka. Si sentono durante questo viaggio, anche della preghiera del Credo, recitata in italiano. La visione tibetana non vuole essere totalizzante per Patiño, ma un’esperienza sincretica, come nel dialogo nella seconda parte del film, in Tanzania, che comincia con il sottofondo del muezzin, tra la madre e i bambini, e tra questi e l’uomo di etnia masai. Per i masai i corpi dei morti potevano anche essere lasciati nella foresta, smembrati, per diventare cibo per gli animali. La dottrina islamica vuole che i cadaveri siano lavati e sepolti, ma altre culture prevedono di bruciarli.

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Il lungo viaggio dell’anima ci porta quindi in Tanzania, in un villaggio di pescatori, altra terra che dirada e confligge con l’acqua, come la Galizia. Ancora una fotografia da film anni Sessanta/Settanta – per il film sono stati impiegati due direttori della fotografia –, da documentario etnografico vintage, lontanissima dalle immagini estetizzanti alla National Geographic, per raccontare la vita del villaggio, i suoi colori, i veli delle donne, i pesci al mercato, le alghe raccolte. Ancora una volta il regista racconta i pericoli della contaminazione, dell’inquinamento portato dal progresso. Qui sono i grandi alberghi con le loro acque di scarico che rischia di avvelenare il mare, e il sostentamento di quella popolazione. Una capretta è molto amata dai bambini. Che sia lei il nuovo corpo in cui è approdato lo spirito della signora laotiana? L’animale fugge, nella disattenzione dei bambini, e non viene ritrovato. Lo vediamo, spaurito, nell’ultima, enigmatica, inquadratura. Cosa le succederà? Potrebbe diventare parte di un albero come in Le quattro volte di Michelangelo Frammartino. L’accostamento con l’opera del regista italiano è un obbligo, laddove quei passaggi di stato della pitagorica equivalgono alle transizioni delle esistenze nella visione buddhista tibetana, messe in scena da Lois Patiño.

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