L’INVITATION AU VOYAGE

Titolo originale: L’invitation au Voyage
Paese di produzione: Francia
Anno: 1927
Durata: 96 min.
Genere: Commedia, Drammatico
Regia: Germaine Dulac

Una donna è stanca della routine familiare, di un marito sempre fuori per affari e di lunghi momenti di passati a sferruzzare e a guardare fuori dalla finestra. Una sera, si avventura nel fumoso cabaret L’invitation au voyage, frequentato da ufficiali della Marina e da donne alla moda. Qui, il suo sguardo incrocia quello di un giovane ufficiale. I due ballano insieme e si corteggiano. Vagheggiano di partire lontano, verso qualche paese esotico, quando il marinaio nota la fede nuziale al dito di lei. Il sogno di fuga si è spezzato per sempre, l’ufficiale risponde all’invito di un’entraîneuse e la protagonista è costretta a tornare alla realtà della sua vita ordinaria, scomparendo dietro la porta del locale.

L’invitation au voyage, girato in grande economia di mezzi, precede di un anno il surrealista La coquille et le clergyman (basato su una sceneggiatura di Antonin Artaud) ed è il primo di una serie di film quasi privi di intreccio realizzati da Germaine Dulac. La regista non si prefigge qui l’obiettivo di illustrare la poesia di Charles Baudelaire ma si ispira solo ad alcuni versi (“Mon enfant, ma sœur,/songe à la douceur,/D’aller là-bas vivre ensemble…/Des meubles luisants,/Polis par les ans/Décoreraient notre chambre”). Più precisamente, L’invitation au voyage si muove tra i due elementi opposti che, nell’opera di Baudelaire, caratterizzano la condizione umana: lo spleen, della propria impossibilità a liberarsi di una situazione angosciosa, e l’idéal, effimero tentativo di fuga da tale condizione in una dimensione temporale indefinita.

Al centro del film è la figura della protagonista, la cui tensione emotiva e il cui desiderio di fuga sono realizzati non tanto attraverso l’espressione gestuale e verbale ‒ le didascalie sono ridotte al minimo ‒ quanto mediante il montaggio e la giustapposizione delle inquadrature. Dulac lega l’ di un cinema capace di rivelare l’interiorità dei personaggi, spesso donne, a quella, per lei conseguente, di rivelarne le condizioni socioculturali. In questo si differenzia da altri esponenti della première vague, una delle esperienze più originali del cinema europeo, alla quale possono ascritti anche Louis Delluc, Jean Epstein, Marcel L’Herbier e Abel Gance. In L’invitation au voyage il primo piano di Emma Gynt è alternato a scene che illustrano la frustrante monotonia della vita coniugale. Se i continui movimenti della cinepresa creano (in particolare nella scena centrale del ballo) un’atmosfera di instabilità, la musica è un elemento altrettanto importante nel di significazione. I racconti dell’ufficiale sono abbinati a dettagli degli strumenti musicali dell’orchestra, e il ‘crescendo’ delle fantasie della donna è dato dal ritmo sempre più scatenato dell’esecuzione, reso attraverso i movimenti veloci delle gambe dei ballerini (per lo storico Richard Abel in questa sequenza è all’opera “a well extabilished model of intoxication”, provvisto di un ricco ventaglio di accelerazioni, sovrimpressioni, inquadrature fuori fuoco). Il montaggio interviene anche per spezzare la rêverie. Una nave trasporta la verso paesi lontani, ma questa figura dell’evasione è minata già al suo interno: l’inquadratura della donna che si affaccia da un oblò è seguita da quella di un cortile pieno di rifiuti. Poi, il flusso del desiderio, suggerito mediante una serie di immagini acquatiche con navi all’orizzonte, il primo piano del giovane marinaio, cieli aperti, il primo piano della donna e dettagli di un nuovo appartamento, è nuovamente interrotto dall’inquadratura stretta sulle mani di lei, che ne mostra la fede nuziale. Le navi del sogno si trasformano in modellini pubblicitari del cabaret. L’atmosfera emotiva del film è creata da Dulac, oltre che tramite gli sguardi sognanti dei protagonisti, attraverso un uso particolare del linguaggio cinematografico, basato sull’impiego del primo piano e di procedimenti quali il flou, il ralenti, i mascherini, l’uso di lenti deformanti che proiettano l’universo diegetico in una dimensione quasi onirica.

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L’invitation au voyage segna una tappa fondamentale nel quadro delle riflessioni sul cinema ‘psicologico’, in cui le immagini sono orchestrate secondo criteri musicali, che restituiscono il movimento della vita e dell’interiorità umana. Il film può inoltre letto come un momento di transizione verso il ‘cinema puro’ o ‘integrale’, concetti espressi da Dulac nei suoi scritti della metà degli anni Venti. Il cinema, secondo la cineasta, deve liberarsi di tutte le ‘impurità’ derivanti dalle altre arti, in particolare dal e dalla letteratura, e lasciar agire il potere emozionale dell’immagine: “Per restituire un soggetto cinematografico senza farlo sprofondare, occorre sezionarlo, moltiplicarne le forme e i movimenti, dimenticare le parole che lo raccontano per trasportarlo nei territori dell’immagine silenziosa”. Il cinema puro, all’epoca al centro di numerosi dibattiti, per Dulac esprime “l’essenza stessa del cinema” e si avvicina alla musica in quanto insieme di “ritmi visuali […] che danno al movimento generale il suo significato e la sua forza”. Poco dopo L’invitation au voyage, la cineasta si avventurerà, non a caso, nei territori del cinema astratto. Il film ebbe una circolazione molto limitata nelle sale commerciali, ma a un anno dalla realizzazione entrò nel circuito delle sale specializzate e dei cineclub, in e negli Stati Uniti. Come dimostrano alcune recensioni, all’epoca non fu particolarmente apprezzato dai critici francesi. Qualcuno lo accusò di perdere continuamente di vista il proprio soggetto principale, ma non mancarono le eccezioni lungimiranti, come un breve articolo apparso a firma ‘L’habitué du vendredi’ su “Cinémagazine” (n. 49, 1927): “Germaine Dulac ha voluto tentare una prova originale: fare un film senza azione, o quasi. Possiamo dire che il tentativo è pienamente riuscito e dimostra una volta di più come, in campo cinematografico, tutte le audacie siano permesse a chi possiede il vero senso della nuova arte e conosce a fondo il suo mestiere. […] Il cinema è l’economia del movimento: Germaine Dulac ne fornisce la prova in questo breve film, in cui il minimo gesto produce la massima espressione e, di conseguenza, la massima impressione”. Il film è poi ampiamente rivalutato dalla più recente storiografia del cinema.        (treccani)

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