LA MEDITAZIONE TRASCENDENTALE E L’OCCIDENTE

[UN BUDA] Il film non ha potuto non ridestare in me la miriade di esperienze e dedicate a questa dicotomia oriente/occidente, spesso presa alla leggera e sempre fonte di incomprensioni che creano grossi guai, perdite di tempo, spreco di soldi, disillusioni, rabbia e tante altre brutte cose, soprattutto in chi rivolge le sue speranze nella meditazione per dipanare il groviglio di problemi “ecologici” che intasano le nostre menti.

Yoga e Meditazione sono smazzati di frequente in milioni di soluzioni e proposte in tutte le palestre e scuole d’Italia; e in tutti i casi il fulcro pubblicitario non si fa scrupoli nel riecheggiare la cultura millenaria che sta dietro a queste nobili discipline.
Che per l’appunto nobili e antiche sono, e meritano un utilizzo più delicato ed attento rispetto a quello più similare al corso di pilates, che generalmente troviamo.

Ma questa è solo quello che a Genova chiamano galusciu, che galleggia sulla superficie di un laghetto ben più profondo e misterioso.
Per cercare di cogliere il punto in modo diretto e veloce vorrei partire dal peggior esempio di utilizzo della tecnica orientale all’interno del modo occidentale, il più grosso galusciu galleggiante sulle nostre acque: la Meditazione Trascendentale.
Trattasi di una pratica meditativa che risale ad uno dei primi guru indiani che decisero di portarla in occidente: Mahaesh Maharishi Yoghi. Sì, quello dei Beatles.

L’iniziale intento polemico, ci tengo a dirlo, è volto solo alla delineazione del nodo problematico sottostante al questa perpetua incomprensione che caratterizza l’utilizzo dell’oriente in occidente.

Il succo della questione è che oggi la pratica della meditazione vuole essere utilizzata come mezzo il dissolvimento del groviglio mentale che causa stress, confusione, ansia. Tale metodo è paragonabile al cercare di sbrogliare una matassa di spaghetti ficcandoli per 20 minuti nel microonde. Ciò che si ottiene non sarà più un groviglio ma difficilmente può considerarsi un problema risolto.
Se la pratica meditativa, infatti, FA PARTE del groviglio, non potrà essere utilizzata a buon fine, e sarà anzi fonte non solo di nuovi nodi, ma di nodi ancor più stretti perché generati da intenti in buona fede.

Analizzata nel contesto del nostro la meditazione trascendentale mostra a mio parere più insidie che benefici. Un beneficio che sono lungi dal mettere in dubbio è il richiamo alla pratica della Meditazione. Poche cose risplendono così intensamente. L’utilità di una così delicata pratica, nel 2018, risplende da molto lontano, ci chiama attraverso un’opacità che raggiunge oggi una densità melmosa e velenosa, dalle luminose cime di un’igiene mentale che oggi pare un miraggio. Riproporla oggi, in 10 minuti di “iniziazione”, messa in vetrina come soluzione allo stress, come un trampolino salvifico al di là della frustrazione, della depressione, della stanchezza, del disagio, con le modalità pubblicitarie del prima e dopo, abbinate a fotografie di dentature perfette, insomma mi sarebbe facilissimo andare avanti prima di nominare i modici 1000 euro a cui viene venduta, ecco dicevo riproporla oggi e in questo modo mi pare poco indicativo di quell’igiene mentale (perché è di quest’ultima di cui a conti fatti voglio parlare) che dovrebbe logicamente essere presente in chi la pratica, ne parla e la propone.

Il Prozac era pubblicizzato meglio. E aveva, quanto meno a modalità di propaganda, lo stesso grado di “igiene”. Ora parlando proprio di quest’ultima voglio subito chiarire questo: la pratica della meditazione trascendentale non può essere ovviamente nociva quanto può esserlo una pillola. Il paragone riguarda solo la modalità di proposta. Ma questa cosa è di un’importanza colossale. È il 90 per cento della questione. È proprio lì che si annida sintomaticamente ciò che a mio parere è nocivo forse più, perché agisce ad un livello più profondo, degli effetti neurologici di un antidepressivo. Chi si approccia alla meditazione lo fa in un certo qual modo con spirito “igienico”. In buona fede, per così dire. Ma è un’arma a doppio taglio. Le possibilità che la cosa risulti utile appartengono, ottimisticamente parlando, al mondo della probabilità, di sicuro non a quello dei giovamenti certi che insistentemente nominano i “pubblicitari trascendentali”. Essi puntano le loro luci su una strada maestra dritta dritta verso i cancelli della beatitudine. Altro che “per aspera ad astra”. In quelle quattro parole è racchiuso un percorso igienico. In una soluzione a 1000 euro, no. Ma non si sta parlando di uno spremi agrumi o di un attrezzo per esercitare gli addominali. Si sta parlando di salute mentale sociale ed individuale, e la scarsa attenzione, la superficialità, la rozzezza (tralasciamo l’ambito meschino degli intenti) con cui essa viene trattata sono sintomatiche del lordume relazionale dei giorni nostri.

Non è mio intento risultare pesante, ne di certo offensivo. Era altresì necessaria un’introduzione atta a chiarire l’angolazione sotto cui cogliere ciò che segue.
Le considerazioni che ho fatto, come quelle che seguono, sono da considerarsi, come d’altronde ho spesse volte sottolineato, in relazione allo specifico hic et nunc in cui ci troviamo immersi. Le acque del fiume Eracliteo che stagnano putride nel putrido 2018 che ci inchioda. Ora, le modalità propagandistiche della MT, come abbiamo visto, si innestano fin troppo palesemente bene nel suddetto putridume e le insegne luminose che espongono sono scelte, con berlusconiana “arguzia” (?), facendo leva sulle debolezze che attanagliano un po’ tutti nel cosiddetto languido “giorno d’oggi”.
Fiducia in se stessi, decisione, forza per affrontare la giornata, positività, alto livello d’attenzione, fino ad un generico (ma in fin dei conti più degno) alludere allo stato di beatitudine. Non per nulla sono i dirigenti d’azienda, tra cui l’MT conta un grosso numero di fruitori.
Ma distogliamo l’attenzione a chi oggi fa volantinaggio e rivolgiamoci alla fonte:

L’esperienza della felicità è un mezzo diretto per ricercare l’energia vitale e per ravvivare la mente. Se si sperimenta una grande felicità, la ricarica di energia vitale del e della mente sarà proporzionale al grado di felicità sperimentato. [La scienza dell’essere e l’arte di vivere, Astrolabio, p. 177].

Avreste il coraggio di dubitarne? Come si vede, in ogni caso, il tono è sempre quello. Il problema qui sovviene quando si passa al “come?”. Ma è semplice! Praticando l’MT! (Anch’io! Anch’io! Presto! Dove si compra?).

Maharishi prosegue, nella pagina dopo, in un capitolo che s’intitola “Il bene e il male”:

Il bene è ciò che produce un’influenza buona ovunque. Certo il bene e il male sono termini relativi e perciò nulla, nell’esistenza relativa, può essere definito assoluto bene e assoluto male. Ma, tuttavia, il bene e il male possono solo essere giudicati per il loro influsso buono e cattivo. Se qualcosa produce un buon influsso dovunque, si può veramente dire che è giusto.
L’intelletto umano non ha un criterio adeguato del bene e del male, perché la ragione è limitata e la visione della mente umana è piccola, se confrontata al vasto e illimitato campo dell’influsso prodotto da un’azione nell’intero universo.

Anche qua il buon Maharishi dice ottime cose, in certi punti opinabili, che di certo nella mia perpetua incertezza non mi metterò di certo a contraddire. (Semmai ad opinare, per l’appunto. Ma l’opinabilità è proficua. Alimenta il discorso). La cosa che voglio mettere in evidenza invece è la “direzione” del discorso. Mahesh Maharishi era un uomo felicemente dedito alla spiritualità, credo, e la sua buona fede non è qua in discussione. Il mio intento è capire di più. E ciò che discuto in questo caso, contrariamente all’ambito del “volantinaggio” di cui prima, non è di certo l’integrità della persona (ovviamente) bensì il contenuto e l’utilità di ciò che ha scritto. Dove sta andando a parare questo signore? Scalando la specifica struttura del suo discorso (ovviamente non solo in queste poche righe che ho citato) si percorrono gradini la cui solidità va esaminata, prima di correre all’agognata meta. La “direzione” del discorso, mi pare, è funzionale alla progressiva costruzione di quell’altare ontologico su cui si vuol appoggiare e far risplendere la pratica della meditazione. Ma le cose a parer mio non sono così semplici.

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Suddetta pratica, per come la si vuol dipingere, si basa sulla rivalutazione del “silenzio” interiore a scapito di quello che i buddisti chiamavano, con intenzioni filosoficamente molto più profonde ed appartenenti ad una cultura ben più vasta, “estensione nera”. Il continuo rumoreggiare dei pensieri. Una sorta di rumore di fondo che distrae la nostra capacità di calare nella pace del nostro Sé più profondo. La metafora che usa Maharishi è quella di un lago, che rappresenterebbe la nostra mente, la cui superficie frastagliata, scossa da onde e bagliori riflessi, sta al nostro continuo rumoreggiare intellettivo, mentre la sua profondità, nell’immobilità di una pace silenziosa, sta al nostro intimo Sé, ricolmo di energie e una volta immersi nel quale (ovviamente tramite la pratica dell’ MT), possiamo risalire in superficie rinvigoriti e ricolmi di forza vitale. A mio parere, per quanto la struttura di base della metafora sia indubbiamente valida, le cose non sono ahimè così semplici.

Ciò che vi è di fuorviante è in primo luogo: l’assimilazione di suddette profondità ad una tanica di benzina emotiva e vitale a cui si può accedere tramite una pratica semplice e priva di possibili imprevisti. Maharishi stesso, oltre che, a maggior ragione e con ben maggior foga gli insegnanti di oggi, insiste sui benefici sicuri ed il raggiungimento certo del risultato. Senza però, riguardo gli odierni guru della MT, la mitica formula “soddisfatti o rimborsati”.

In secondo luogo: l’idea che la superficie del lago, il continuo gorgogliare dei nostri pensieri di tutti i giorni, dagli interrogativi sul costo del detersivo al chiedersi cosa ci faccio qui, sia semplice rumore di fondo da ignorare prima di tuffarsi fiduciosi verso il fondo di noi stessi per ricaricare le batterie.

All’interno del libro da cui ho estrapolato queste citazioni ci sono molte parti teoriche ed ottimi consigli per una regolazione graduale di una vita “sana” che possa favorire l’efficacia della pratica dell’ MT. Purtroppo però, e non ho idea se Maharishi questo avrebbe potuto prevederlo o se invece era tutto previsto e volutamente ignorato, insomma non voglio questionare sulla sua buona fede, questo tipo di impostazione è a parere di chi scrive molto pericolosa se innestata nei tempi che stiamo vivendo. La tendenza a distogliere l’attenzione dai processi di pensiero in virtù di una pratica semplice e quotidiana votata ciecamente al silenzio non giova alla pratica della meditazione né alla crescita dell’individuo.

L’accrescimento della volontà dell’individuo, votata ad una maggiore comprensione di sé e del mondo e verso ad una necessaria depurazione delle proprie connessioni mentali e processi di ragionamento, è propedeutica, e non consequenziale, rispetto alla riuscita di un’eventuale pratica meditativa (1). Quando si raffigura il guru seduto in meditazione su un monte, quella montagna in cima alla quale riposa nella posizione del loto, è metaforica. Rappresenta io credo il fatto che prima di iniziare a meditare devi salire li sopra con le tue gambe, con degli sforzi e dopo cosciente decisione di voler effettivamente andare in quel luogo. Nell’impostazione generale a cui sto facendo riferimento (il buon Maharishi mi perdoni) questo percorso fatto di fatiche, fisiche forse, di sicuro mentali, è annullato. Cancellato. Del tutto svuotato della sua importanza. Perfettamente attinente alla mentalità oggi (forse consapevolmente e malignamente) spinta all’estremo dell’ottenimento immediato del risultato. Fa parte di una cultura che può crescere bambini viziati, colpevolmente suscettibili alle critiche e poco disposti alla pazienza necessaria alla comprensione (nella sua duplice accezione emotiva ed intellettuale). Non di certo personalità radicate, capaci forse di quelle buone azioni di cui Maharishi suppone il benefico influsso. Ecco uno dei gradini “sifuli” della costruzione concettuale di Mahesh Yogi: il “bene”, definito non a caso come concetto relativo, viene riconosciuto tramite i suoi effetti concreti nel mondo circostante.

Che una “buona azione” debba avere (magari a livelli profondi, non riscontrabili nell’immediata catena causale) degli effetti benefici è fuor di dubbio. Ma il fatto che il bene venga concettualmente inchiodato al mondo della relatività rende ben complicato definire cosa sia una “buona azione”. E poterla giudicare effettivamente buona col senno di poi (ricavato dalla constatazione dei suoi effetti) è un atteggiamento che ha il suo rovescio della medaglia nella svalutazione della ragione come mezzo discernitivo. Non per niente due righe dopo l’autore dice che l’intelletto non ha criteri sufficienti per giudicare bene e male. Questo è un ottimo metodo, vogliate seguirmi, per avvalorare e promuovere gradualmente una pratica che non ha nulla di razionale, essendo basata sulla ripetizione di un mantra e sulla ricerca del silenzio. Ma il silenzio di una persona confusa non sarà certo quell’oceano di silenzio che aiuta il famoso cantautore siciliano a godere della propria vita.

E oggi la confusione è massima, sommersi come siamo da una tecnologia inutile ed invadente che corre ad un passo ben diverso dal nostro sviluppo delle capacità di controllarla. Da qui il grave pericolo che si annida nelle viscere di una proposta, quella della meditazione, in sé ottima. Dove sta qui la buona azione? Negli intenti? O negli effetti? E a proposito di ciò, a proposito cioè di dove andare a cercare la “prova” della bontà di un’azione: il “vasto e illimitato campo dell’influsso prodotto da un’azione nell’intero universo”, dice Mahesh, non può essere ricoperto dalla nostra capacità intellettiva. Da ciò il fatto, nel suo ragionamento, che il bene ed il male debbano essere concetti relativi. Ma di nuovo qui le cose sono rovesciate. La relatività è dovuta al fatto che il bene, per essere effettivamente denominato come “bene”, abbisogna di una “prova” a posteriori riscontrabile nella catena di influssi positivi che si espande fino agli illimitati limiti dell’universo. E chi sarebbe in grado di farlo?

È un serpente che si morde la coda. Se il bene è relativo deve essere provato, e l’intelletto non può farlo in quanto non raggiunge il limite dell’universo intero. Insomma se si chiede all’intelletto di provare razionalmente cosa sia bene e cosa non lo sia, avrà certo partita persa. E lo scopo di Mahesh Maharishi è raggiunto. Ma la svalutazione dell’intelletto porta con sé, insieme all’incoraggiamento alla pratica del silenzio, un potenziale annichilimento dello sviluppo della coscienza e comprensione di cosa sia la “mente”. Solo che è proprio li, nella mente, che nascono i concetti che il nostro Yogi usa e dove unicamente può nascere quella scienza dell’essere e a maggior ragione quell’arte di vivere che troneggiano nel bellissimo titolo del libro di Maharishi. Infatti, senza le relazioni insite all’interno della mente, che non è un lago, perché possiede una struttura, non credo che un essere umano, Maharishi (come Yogananda o d’altronde qualunque yogi esistito nei secoli dei secoli) compreso, avrebbe potuto creare – comprendere – parlare di cose come “arte”, “bene”, “male”, “scienza”. Se la mente è un lago e ciò che dobbiamo fare per nutrircene è oltrepassare la superficie increspata per scendere dove risiede la quiete, unico luogo dove potremo giovare della sostanza di cui è fatta l’energia vitale, è chiaro che li e solo li, in fondo al lago, saranno riposte le nostre attenzioni e le nostre speranze.

Credo che se tre secoli prima di Cristo, forse, questo tipo di insegnamento, corretto dai modi insiti di un’epoca che posso raffigurarmi solo a suon di supposizioni e di immaginazione, possa essere calzato a pennello, non lo è di sicuro ai giorni nostri nel quale ciò di cui la nostra mente si nutre è, non azzardiamoci a giudicare peggiore o migliore, ma di certo differente. Ma di cosa si nutre la mente oggi? Dov’è la quella benefica sostanza conoscitiva che può rischiarare la via e le capacità concrete di sviluppare una pratica così difficile ed ambigua come la Meditazione? Una pratica che si muove su sentieri illuminati dalla pazienza, dalla costanza e dalla fiducia nel senso suo più profondo? Dove possiamo trovare la comprensione di tali sante virtù e capacità, se non siamo in grado di definire e di collegare ciò che ci circonda? Nella sua commovente integrità e trasparenza Michel de Montaigne scriveva, negli anni ’80 del XVI secolo:

Come vediamo che certe terre incolte, se sono grasse e fertili, abbondano di centomila specie di erbe selvatiche e inutili, e per farle fruttare bisogna piegarle all’uso di certe sementi, per nostra utilità. […] Così avviene per gli spiriti. Se non li occupiamo con qualche oggetto che li imbrigli e costringa, si gettano senza regola ora qui ora là, nello sterile campo delle immaginazioni […] (Michel de Montaigne, Saggi, Bompiani, pag. 28)

Ora, parlare di Meditazione (e io ringrazio di cuore Maharishi ed i suoi seguaci che mi hanno dato l’occasione di farlo) fa bene allo spirito. Ma bisogna parlarne, prima di praticarla. Perché se l’utilità del discuterne è certa, quella del praticarla alla cieca di sicuro certa non è. Tantomeno infilarla “di forza” (perché a questo equivale pubblicizzarla nei modi più sopra discussi) all’interno del di vita di una persona che vive circondata da cose, come i social, l’alimentazione, ma anche le relazioni familiari, il ruolo del lavoro, l’amore, i riti, la religione, che non capisce.

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Quindi, acciocché la terra incolta del 2018 possa far germogliare, in futuro, i frutti dorati della Meditazione o la semplice capacità, come diceva il già citato cantautore trinacrio, di contemplare il cielo e i fiori, dobbiamo arricchirla di sementi concreti che, dall’altro lato della metafora usata dal buon Michel, sono oggetti che ci imbriglino (e non ci si “imbriglia” nell’ immobile e monocromatica di un lago) senza i quali si rischia di vagare, come stiamo facendo, “senza regola ora qui ora là, nello sterile campo delle immaginazioni”. E lo stiamo sicuramente facendo, se chi insegna una pratica presentata come la salvezza individuale e sociale (si leggano le descrizioni dell’ MT), vende il suo insegnamento (della durata di 10 minuti) a 1000 euro. (2)

Ma non è la che mi interessa, perché è un campo in cui le mie già aride capacità di eloquio si inaridiscono definitivamente, essiccate dalla pigrizia con cui io stesso, vittima colpevole delle istanze di oggi, affronto l’attualità.

L’istruzione ufficiale non insegna quasi nulla riguardo alla di tutte le cose che si trovano sulle spiagge e nelle foreste di sequoie, nei deserti e nelle pianure. Perfino molti adulti con figli non sono in grado di fornire una spiegazione soddisfacente di concetti come entropia, sacramento, sintassi, numero, quantità, struttura, disegno, relazione lineare, nome, classe, pertinenza, energia, ridondanza, forza, probabilità, parti, tutto, informazione, tautologia, omologia, massa, messa, spiegazione, descrizione, legge dimensionale, tipo logico, metafora, topologia, eccetera. Che cosa sono le farfalle? Che cosa sono le stelle di mare? Che cosa sono la bellezza e la bruttezza?
Mi parve che l’esposizione scritta di alcune di queste idee così elementari si sarebbe potuta intitolare, con un pizzico di ironia, Ogni scolaretto lo sa (Bateson, Mente e Natura, Adelphi, p. 15).

Gregory Bateson, un pezzo da 90 fra ciò che di più prezioso ha partorito questa nostra miracolosa razza umana, sarà il nostro umile giardiniere, capace di condurci dall’arido terriccio dove una pianticella vale l’altra a quell’immensa, variopinta e lussureggiante che è la Mente.

Ebbene, di cosa stiamo parlando? Mi pare corretto iniziare ancora la nostra indagine partendo dal buon vecchio Mahesh Maharishi Yogi, il cui manifesto programmatico propone molteplici concetti e punti di vista interessanti per chiunque abbia voglia di capire, senza tema di sbagliare interponendo i propri sacrosanti punti interrogativi.

Il “guru” che fra un sorriso ed una pausa di silenzio ebbe la fortuna di circondarsi della compagnia di John Lennon e compagni, paragona la mente ad un lago, magari uno di quegli splendidi specchi d’ che sorgono fra le alture himalayane, in cui la superficie coi suoi riflessi e le increspature dovute ai venti sta per la nostra mente cosciente frastagliata dal nostro pensare ininterrotto e, come la metafora assai pertinentemente propone, pone il volto agli agenti atmosferici ed agli abbagli del sole; mentre immergendoci e scendendo verso i suoi fondali ci inoltriamo via via verso le nostra zone profonde (3), ricolme di pace e di silenzio.

Nella pratica della MT la ripetizione di una singola parola priva di significato letterale (un qualcosa faticosamente definito dalla mescolanza di tre parole: suono – vibrazione – pensiero), un cosiddetto “mantra”, è il veicolo che ci aiuta ad eludere il campo dei significanti, il linguaggio, e a scendere in profondità. Ma chi o cosa scende dove? In questa metafora c’è una confusione concettuale che, se da un lato non inficia la validità evocativa della metafora stessa, dall’altro aiuta me e lei, che mi segue pazientemente nel mio pignolare, a capire meglio il delicato campo in cui ci stiamo muovendo. “Io” mi immergo dentro “me stesso”, risponderebbe forse Maharishi. Ma sarebbe una risposta ambigua e non chiara, perché il lago non sono io. O quanto meno non propriamente. Se sono io ad immergermi dovrà esistere un qualcosa di più ampio dove tuffandomi troverò gli splendori che decantano gli “adepti” dalla MT, o un luogo che David Lynch, nel suo bellissimo libro, assimila a quello che la fisica quantistica chiama “campo unificato”. Purtroppo sarebbe troppo complicato andare ad esaminare in questa sede questo concetto dalle potenzialità enormi. Sia detto solo di sfuggita che è stato utilizzato come ponte (seppur un po’ tardivo) tra scienza e misticismo. Ma quello che concerne il nostro discorso è il fatto che la mente, anche nella visione di Maharishi, è qualcosa che oltrepassa i limiti epidermici del soggetto che medita. Esattamente come nella scena metaforica in cui il meditante -sub si immerge in uno specchio d’acqua.

Questa situazione sta alla base dell’universo che Bateson, nelle pagine dei suoi libri, libri che illuminerebbero le liste dei vostri regali natalizi, in cui vi consiglio di includerli, ci apre davanti agli occhi come uno splendido ventaglio. Utilizzo e propongo qua la sua teoria della mente perché suddetta teoria ha una specifica particolarità insita nella sua natura, una particolarità espressa in modo perfetto dalla frase di William Blake: “non è possibile che la verità sia detta in modo da venir compresa e non creduta”.

Per cui ripeto a chi avesse avuto la pazienza di leggere fin qui ciò che ripeto sempre a me stesso:

non perderti d’animo, ma fa molta attenzione.

Queste righe hanno un seguito nello scritto intero “Catching the Big Fish”.

Note

1  Possiamo anche supporre come, pure nella citazione precedente, quella sulla felicità e la sua carica energetica, i due termini legati da nesso causale siano invertibili

2 “Ho scarsissima simpatia per questi argomenti che invocano il ‘bisogno’ del mondo, e se non sbaglio coloro che si fanno avvocati di tali bisogni spesso sono ben pagati. […] Ho il sospetto che in realtà essi nascondano un profondo panico epistemologico” (M.C. e G. Bateson, Dove gli Angeli esitano, p. 31)

3 Eviterei l’utilizzo, in tale contesto, dei termini “inconscio” o “preconscio” per evitare confusioni. Ai fini del discorso giovano, come Maharishi secondo me ben sapeva, termini più generali. D’altronde le metafore per loro non richiedono terminologie precise; la precisione, nel delle metafore, è richiesta più dalla coscienza della loro strutturazione.

francescovecchi  – Un Buda

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