CAVALO DINHEIRO (SubITA)

Titolo originale: Cavalo Dinheiro
Nazionalità: Portogallo
Anno: 2014
Genere: Drammatico
Durata: 103 min.
Regia: Pedro Costa

Mentre i giovani capitani conducono la rivoluzione nelle strade, la gente di Fontainhas cerca Ventura, che si è perso nella foresta.

Un buio che soffoca lo circostante, dove miseria e disperazione conducono al crimine più estremo, qui risiede il fuoco della sommossa. Un presente torturato dal passato, travagliato come il corpo schizofrenico di Ventura, rinchiuso in una condizione di costante dalla quale nasce la volontà di lottare una guerra necessaria ed eterna, immortale. E “Horse Money” è questo, la resurrezione dello spirito rivoluzionario, sepolto ma ancora vivo, non importa da quale Paese provenga, ciò che sussiste è il desiderio di libertà: il sogno di una vita che è la morte di un incubo. Qualcosa che vive e permane, per sempre.
La scena si determina all’interno di un ospedale, dove Ventura, un anziano (convinto di avere 19 anni) ex-militante nella Rivoluzione dei garofani, è ricoverato. Da qui riemergono le memorie trascorse: una rivolta già in atto, qualcosa di vivo e ormai presente. Una vedova tornata a Lisbona per seppellire il marito e “sollevare lo spettro della perdizione”. Incubi, desideri e reminiscenze si fondono in un quadro semi-onirico di tracciati informi, parallelismi onirici di carattere emblematico, universi che contraddicono ogni aspetto della propria conformazione, senza però negare mai ciò che li precede. Il ritratto trascendente di una lotta per l’impossibile, ma pur sempre indispensabile.

In questa galleria di riprese immobili, raffigurazioni alla ricerca di una luce che doni loro vigoria, Costa sprigiona una riflessione su quella che lui stesso definisce realtà, ciò che definisce il confine tra vita e morte, espressione che in questo contesto appare fortemente sinonimica al concetto di libertà. Ed ancora una volta affronta la questione rivoluzionaria con un tocco artistico quanto mai presente sul lato tecnico che, come già dimostrato in precedenza (in particolar modo in “Ne change rien”), si manifesta prevalentemente con la fotografia: ombre perpetue a gravare sugli spazi, un’oscurità che sembra imprigionare tutto ciò che riveste, sottrarre ossigeno, vita. Dunque l’isteria del soggetto nasce dal presente, l’esile, indistinguibile perimetro che scinde l’oggi dal domani, l’incubo dal vissuto, persiste solo in quanto sommesso, vaneggiante canto del cigno, in quanto Golgota, santuario del possibile. L’infinito realizzarsi in uno illusorio e demistificatorio non è che l’apocrifo rigetto di ogni concettualizzazione, null’altro che porre l’accento sull’empio divenire del presente. Con ciò, il cammino di Ventura diviene il chimerico astrarsi da ogni continuità/nesso spazio-temporale, portando a compimento uno sguardo solenne e metaforico su ciò che è, ma che, cosa ancora più importante, non può non essere, sussiste infatti come anagramma di quel presente che Costa raffigura come tunnel avvolti dalle tenebre ed antiche rovine sepolte.
Singolare anche la dicotomia semantica che si può ricavare dal film nel suo porsi. Oltre infatti a riprendere il discorso sui reietti della periferia lisbonese e la relativa comunità di immigrati africani (“Bones”, “In Vanda’s room”), allo stesso tempo l’opera prosegue il percorso di Ventura (“Our man”, “Colossal youth”) offrendo di nuovo la medesima prospettiva alienata, il medesimo sospiro di speranza, quella che però non riesce mai davvero a prevalere. Una presenza estraniata sussistente in un tessuto narrativo che prende le distanze da qualsiasi pretesa di ricevere una spiegazione, palesando così tanto l’essenza marginale di un’esposizione degli eventi trasparente quanto l’urgenza di restituire un reale senso di libertà scavando nelle radici di un’umanità che spera per disperazione.
“Sei già morto un migliaio di volte. Cos’è una morte in più?”. Essere già nella morte, questo il punto. Porre fine ad una schiavitù che non rende possibile essere se stessi, poter pensare, poter vivere, solamente sostentare. Da qui nasce l’impellenza di (op)porsi, porre in atto la propria esistenza dapprima seviziata, relegata in una gabbia di schemi imposti. Rivoltarsi, ostentare di essere anche quando questo può costare tutto, credere che la pena di oggi valga la gioia del domani, insorgere perché si può, si deve. Combattere una lotta quindi, armarsi per difendere il osteggiando le forze che rappresentano prigionia ed asservimento. Vivere nel dolore, nel tremolio incessante, nella dannazione che si perpetua, nell’assurda e flebile utopia che si compiace (e contraddice) augurandosi che “verrà un giorno in cui accetteremo la nostra sofferenza”.

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Recensione: cinepaxy.wordpress.com

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By Anam

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