Titolo originale: Koi no Tsumi
Nazionalità: Giappone
Anno: 2011
Genere: Drammatico, Erotico, Thriller
Durata: 143 min.
Regia: Sion Sono
Guilty of Romance è un film profondamente materiale, un film fatto di corpi da toccare, di atti sessuali svolti con frenesia e rabbia, in cui il montaggio si fa subliminale, la regia abbandona il grigio rigore casalingo per lanciarsi in evoluzioni libere e sfrenate.
La frusta e il corpo
Izumi è sposata a uno scrittore famoso per i suoi romanzi d’amore, ma la loro vita sembra solo una semplice ripetizione priva di qualsiasi elemento romantico. Un giorno decide di seguire i suoi desideri e accetta di posare nuda per una donna che lavora nel campo del porno. In seguito incontra una professoressa universitaria che si prostituisce durante la notte e condivide con lei la vendita del proprio corpo agli sconosciuti. Ciononostante a casa continua a comportarsi come sempre. Un giorno viene trovato un corpo brutalmente assassinato nella zona della città dove sono concentrati i “Love Hotels”. Una poliziotta prova a scoprire cosa possa essere successo…
Era sera tarda quando K. arrivò.
Il paese era affondato nella neve.
La collina non si vedeva, nebbia e tenebre la nascondevano,
e non il più fioco raggio di luce indicava il grande Castello.
Incipit de Il castello di Franz Kafka
Sion (conosciuto anche come Shion, ma oramai questa traslitterazione è davvero poco usata a livello internazionale) Sono e Takashi Miike sono due personalità molto più simili di quanto si possa forse pensare. Un parallelismo valido da sempre, ma confermato con forza dalle ultime edizioni della Mostra di Venezia e del Festival di Cannes: al Lido i due cineasti giapponesi erano presenti rispettivamente con Cold Fish (presentato nella sezione Orizzonti) e 13 Assassins (Concorso), mentre sulla Croisette sono approdati Guilty of Romance (proiezione speciale nella Quinzaine des realisateurs) e Hara-kiri: Death of a Samurai (Concorso). E proprio la differenza di collocazione nei palinsesti dei due principali festival europei e mondiali permette di comprendere la più grande differenza che intercorre tra i cineasti, legata esclusivamente alla percezione che se ne ha in occidente: laddove Miike è oramai sdoganato in maniera definitiva, pur rimanendo legato a una cerchia di estimatori non proprio infinita, Shion Sono è davvero materia per pochi intimi. Si è avuta definitiva riprova di quanto appena affermato alla proiezione – tra l’altro unica, se si esclude una replica piazzata però l’ultimo giorno in una sala distante dall’area del festival, lo Studio 13 – al Marriott, sede della Quinzaine: la sala non si è riempita in ogni ordine di posti, e molti spettatori hanno abbandonato la proiezione ben prima della fine del film. Sono sta dunque ripercorrendo il difficile cammino intrapreso anni addietro dallo stesso Miike, come può confermare chiunque ricordi la transumanza verso l’uscita che contraddistinse nel 2004 la proiezione veneziana del capolavoro Izo.
In questo senso Sono potrebbe trovare ostacoli ancora più impervi sul proprio cammino: rispetto a Miike, infatti, Sono è un regista assai meno “popolare” nell’approccio alla materia cinematografica. Certo, filma sempre storie che potrebbero appassionare qualsiasi tipologia di spettatore, ma la sua messa in scena è dura, spigolosa, mai incline alla comodità: il pubblico dei suoi film è avvezzo a una postura mai rilassata, sempre sul chi vive, pronta ad accettare qualsiasi cambio di marcia e di prospettiva. Perché Sono è un regista profondamente eretico, crudele nella ricostruzione di una realtà contemporanea giapponese verso la quale si scaglia senza mezze misure. Nascosta dietro narrazioni elefantiache (i suoi film superano spesso e volentieri la barriera delle due ore, e Love Exposure arriva a toccare i duecentotrentasette minuti di durata) vi è l’indagine pessimista di una nazione che vive nell’ipocrisia, tentando di celare un’umanità bestiale e umorale che di quando in quando riesce a prendere il sopravvento. È così anche in Guilty of Romance (Koi no tsuki in giapponese), dove la procace protagonista Izumi, interpretata con folle e sofferta gentilezza da Megumi Kagurazaka – già vista in Cold Fish e 13 Assassins – scopre la propria passione per il sesso e l’erotismo intraprendendo una strada dalla quale non esistono vie d’uscita: il suo è un percorso in eterna discesa, verso un inferno che non ha fine ma allo stesso tempo è assai più umano, carnale e sincero della quotidiana vita borghese della classe agiata. Come già evidenziato in molti dei suoi precedenti film, Sono prende di mira l’istituzione familiare, ridotta a un illusorio gioco delle parti, reiterato all’infinito e senza nulla che apparentemente possa sconvolgerne la prassi: ogni mattina il freddo e rigoroso – all’apparenza – marito di Izumi esce per andare a lavoro, la consorte lo accompagna alla porta, lo vede mettersi le scarpe e andarsene, quindi mette in ordine le pantofole, già pronte per essere infilate al ritorno a casa la sera.
Uno schema che Sono ripete con maligna e divertita ironia, e che viene sconvolto dalla scoperta che Izumi fa del proprio corpo: Guilty of Romance è un film profondamente materiale, un film fatto di corpi da toccare, di atti sessuali svolti con frenesia e rabbia, in cui il montaggio si fa subliminale, la regia abbandona il grigio rigore casalingo per lanciarsi in evoluzioni libere e sfrenate. Non esistono colpevoli e innocenti nel cinema di Sono, perché nessuno può evitare la propria natura. La vera liberazione (dai timori, dai sensi di colpa, dalle inibizioni) è irraggiungibile, come il metaforico castello di Kafka più volte citato nel corso del film, e si può solo cercare di spingersi il più in là possibile per superare le stanche coordinati emotive e comportamentali proposte dalla società “civile”. Nello sguardo imbastardito di Sono, grande cineasta contemporaneo (“il nuovo Imamura” lo apostrofò l’anno scorso a Venezia Marco Müller nell’intervista esclusiva concessaci: un paragone tutt’altro che peregrino) è possibile rintracciare l’anima di un narratore estremo e imprevedibile, politico nel “fare” cinema piuttosto che nel “pensarlo”. E come sempre, i suoi finali lasciano senza fiato, come la corsa disperata della poliziotta fedifraga Kazuko Yoshida dietro il camion della nettezza urbana, alla ricerca di una purezza e di una pulizia oramai impossibili anche solo da agognare.
Recensione: quinlan.it