Titolo originale: El club
Nazionalità: Cile
Anno: 2015
Genere: Drammatico
Durata: 97 min.
Regia: Pablo Larraín
Un gruppo di preti di diverse età vive insieme a Monica, una suora, in una casa sulla costa cilena. Non pregano e non fanno penitenza per i loro peccati, ma anzi sono tutti occupati ad allenare il loro levriero per la prossima corsa tra cani. L’arrivo di un nuovo prete e il suo subitaneo suicidio sconvolgeranno l’ormai tranquillo tran tran del gruppo.
1976
Esiste un altro cineasta classe 1976 nelle sale italiane a partire dal 25 febbraio oltre al nostro ottimo Gabriele Mainetti con Lo Chiamavano Jeeg Robot. Ma mentre il regista romano è al suo esordio nel lungo, Pablo Larraín (40 anni da compiere il prossimo 19 agosto) è arrivato con Il Club già alla sua quinta regia. La peculiarità è che ci troviamo ad avere a che fare con un artista giovane, deciso e molto, molto ambizioso. I suoi sono drammi dagli spunti allegorici in cui si riflette sulla storia politica del suo Cile attraverso percorsi individuali dai tratti idiosincratici, sia che si tratti di ballerini ossessionati da La Febbre del Sabato Sera e disposti a tutto pur di coltivare quella mania (Tony Manero), sia si tratti di impiegati di un obitorio (Post Mortem), sia si tratti di pubblicitari impegnati per la prima volta in una campagna di natura politica (No). Stavolta Larraín ha affrontato la religione. Partendo con una didascalia dedicata all’inizio.
Genesi 1:4
“E Dio vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre”. Anche in Cile le autorità ecclesiastiche hanno cercato di separare la luce dalle tenebre spedendo dei preti peccatori in un esilio al mare davanti alla maestosità dell’oceano Pacifico. Ci troviamo a La Boca, minuscolo assembramento di villini le cui spiagge sono frequentate da surfisti e pescatori. Nell’interno, invece, si sfidano velocissimi cani da corsa. Qui vivono i membri di un particolarissimo club, rinchiusi ai domiciliari dentro un’inquietante casetta gialla inquadrata spesso da Larraín dal basso verso l’alto come fosse un luogo gotico di orrore. E probabilmente lo è. Dentro quelle mura troveremo Padre Vidal (pare abbia ceduto all’istinto sessuale; lo interpreta l’attore feticcio del regista Alfredo Castro), Padre Ortega (pare abbia rapito i bambini dei poveri per darli ai ricchi), Padre Ramírez (peccati sessuali anche per lui anche se non si ricorda più niente) e Padre Silva (pare abbia collaborato assiduamente con il regime dittatoriale di Pinochet).
Inizialmente sembrano dei pensionati in vacanza. Li vediamo svagati, ossessionati dalle corse dei cani dove il pupillo quattrozampe Fulmine dà loro tante soddisfazioni (levriero accudito da Padre Vidal con l’orgoglio che si deve avere nei confronti dell’unica razza canina citata nella Bibbia). Certo… le vittorie di Fulmine questi signori le vedono solo da lontano perché non possono avvicinarsi alla pista da corsa dove può accedere in vece loro la perpetua perpetuamente impegnata a lavare il pavimento dell’uscio della casa gialla. Si chiama Hermana Mónica (fantastica Antonia Zegers, moglie del regista). Lei, unica donna del club, è forse più spaventosa di tutti quegli uomini messi insieme. Ha un sorriso così placido e fisso da risultare spaventoso e ha anche lei tutti gli interessi affinché questo esilio dai tratti turistici risulti il più tranquillo e duraturo possibile. Peccato che in casa ci sia una pistola.
L’angelo sterminatore
E se qualcuno arrivasse al cancelletto del club per urlare a voce alta i peccati dei suoi inquilini? E se una pistola spuntata all’improvviso (“Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari” diceva Anton Cechov) facesse improvvidamente fuoco? E se poi dopo partisse un’indagine quasi poliziesca con tanto di invio alla casa gialla di tale Padre Garcia con il compito di capire come e perché quella pistola ha sparato? Lo vedremo interrogare i membri del club, cercando di penetrare in quella chiusa comunità un po’ come faceva il Guglielmo da Baskerville de Il Nome Della Rosa di Umberto Eco. Per una volta ci fermiamo qui con gli spoiler anche se il Bad Movie li può accettare al suo interno. Il motivo è semplice: uno dei tanti meriti di questo affascinante e intelligentissimo film è anche quello di essere a suo modo un appassionante giallo con venature noir dove le tenebre sovrastanti la luce non riguardano solo la moralità dei protagonisti quanto anche i misteri legati a una trama che si farà sempre più complessa per lo spettatore. Il Club è un film che inquadra quell’angelo sterminatore che Luis Buñuel non ci faceva vedere nel suo omonimo capolavoro e per angelo sterminatore intendiamo quel senso di colpa ancestrale rappresentato qui da una persona dal nome e look esotico. In più: se vi chiedete cosa sia realmente il Caso Spotlight… ecco un film che non si concentra su giornalisti intenti a smascherare preti pedofili quanto piuttosto sulle tante maschere che preti pedofili possono continuare ad indossare anche DOPO aver commesso quegli atroci peccati. E’ un film che potrebbe anche lasciarvi con l’amaro in bocca perché il suo finale ambiguo si presta alle più svariate interpretazioni. Per noi vince su tutto un’unica parola: omertà. Ma ognuno è libero di pensarla come vuole.
Pablo & Jackie
Raffinatissimo scandalo da Festival (ci ricorda, a tema comunità religiosa malata, il potente Oltre le Colline di Cristian Mungiu, premiato a Cannes 2012 con Miglior Sceneggiatura), Il Club ha fatto parlare di sé a Berlino 2015 portando a casa il Gran Premio della Giuria. E’ riuscito ad entrare nella cinquina per Miglior Film Straniero ai Golden Globe 2016 (ha perso per mano de Il Figlio di Saul) ma non ce l’ha fatta ad avere la nomination agli imminenti Oscar del 28 febbraio. Larraín però, dopo aver preso in considerazione l’idea estremamente affascinante di lavorare al remake di Scarface di Brian De Palma, è impegnato ora nel suo esordio in lingua inglese con un interessante non biopic su Jacqueline Kennedy (si affronteranno i giorni seguenti l’omicidio del marito JFK) affidata al Premio Oscar Natalie Portman. Dopo il Denis Villeneuve proveniente dall’arthouse ed eccellente in Prisoners (2013), Enemy (2013), Sicario (2015) ora impegnato nel sequel di Blade Runner… ecco un altro regista fieramente collegato a un incisivo cinema d’autore festivaliero pronto a misurarsi con un tipo di produzione automaticamente più mainstream per via della lingua inglese e della presenza di star anglosassoni.
Sappiamo che i registi italiani, tranne Luca Guadagnino, sono drammaticamente indietro a livello culturale a proposito di questo tipo di capacità di vivere e affrontare esperienza cinematografiche agli antipodi. Sappiamo invece che l’enfant prodige cileno non ancora quarantenne Pablo Larraín appartiene invece già a quel club ristretto di grandi della settima arte in grado di fare questo e anche altro.
Recensione: badtaste.it