
Titolo originale: Family Portrait
Paese di produzione: Stati Uniti
Anno: 2023
Durata: 76 minuti
Genere: Dramma, Sperimentale
Regia: Lucy Kerr
Sinossi
Una famiglia si riunisce in una casa isolata per scattare la foto annuale, ma la quiete è una facciata: i rapporti si sfaldano, i corpi sembrano fuori posto, e una tensione stranamente metafisica attraversa ogni gesto. Nel tentativo di creare un’immagine perfetta, emergono ricordi non detti, distanze irrisolte e un senso crescente di instabilità. La preparazione dello scatto diventa un rituale inquieto, un momento sospeso dove l’unità familiare sembra più un desiderio che una realtà.
Recensione
Family Portrait è uno di quei film che si insinuano piano nella mente, come una fessura nella parete che all’inizio sembra innocua, poi cresce, si allarga, e ti ritrovi a fissare la crepa come fosse la verità che non avevi il coraggio di guardare. Lucy Kerr costruisce un’opera silenziosamente devastante, dove ogni dettaglio — un movimento impercettibile, un’inquadratura leggermente storta, un respiro fuori tempo — contribuisce a raccontare un nucleo familiare incrinato da tensioni così profonde da radicarsi negli oggetti, nell’aria stessa.
Lo sguardo della regista è chirurgico ma empatico, quasi clinico nel modo in cui osserva i corpi, eppure rispettoso della loro fragilità. La casa diventa una lente che deforma: ogni stanza accentua distanze, rivela patti taciti, mostra ciò che viene tenuto a bada per convenzione, educazione o pura paura. Il tentativo di scattare una foto — gesto semplice, quotidiano — diventa un esercizio di violenza gentile: mantenere il sorriso, restare immobili, fingere armonia. Ma Kerr è una regista che non crede nei sorrisi immobili, e infatti il suo film non concede nulla a quella compostezza forzata.
La messa in scena è calibrata con ossessione: piani lunghi, tempi dilatati, movimenti minimi che sembrano vibrare sotto la pelle. Più che raccontare una storia, Family Portrait mette in scena una sensazione: il senso di essere insieme e allo stesso tempo irrimediabilmente soli. Il film ha qualcosa del tableau vivente, qualcosa del rito fotografico, qualcosa della performance; ma soprattutto ha quel ritmo sospeso che appartiene alle relazioni che stanno collassando senza che nessuno osi dichiararlo.
Il tema del corpo è centrale: corpi che non sanno dove posarsi, corpi che non si toccano abbastanza o si toccano troppo tardi, corpi che cercano una postura che renda tutto più tollerabile. Kerr osserva questo balletto di tensioni con un rigore quasi scientifico, facendo emergere la verità nella lentezza. Ogni membro della famiglia sembra trattenere una nota di un accordo che non si chiude mai, e l’effetto è ipnotico: non succede “molto”, ma avverti che ogni respiro pesa come un gesto definitivo.
L’intuizione più luminosa — o più tagliente — del film è che la famiglia, vista da dentro, non è mai un’immagine ma un movimento. La fotografia finale, quella tanto attesa, è solo un residuo, una promessa falsa di stabilità. Quello che conta è il caos che c’è prima: la tensione, i fallimenti della comunicazione, gli sguardi che sfuggono. Family Portrait cattura quel caos senza giudicarlo, senza volerlo risolvere, e proprio per questo riesce a essere più sincero di qualsiasi racconto familiare tradizionale.
Come opera d’esordio, è sorprendente per sicurezza formale e sensibilità percettiva: è un film che non ha bisogno di alzare la voce per colpire. Lo fa con silenzi carichi, con vuoti che parlano, con piccoli terremoti emotivi che fanno tremare il pavimento sotto i piedi dello spettatore.
In definitiva, Family Portrait è una meditazione densa e tesa su ciò che resta quando l’idea di famiglia non combacia più con la sua immagine. Un lavoro che richiede attenzione, pazienza, ascolto sottile — e che ripaga con quella strana verità che non si lascia afferrare, ma che una volta percepita non puoi più ignorare.
