
Titolo originale: El Jockey
Paese di produzione: Argentina, Messico, Spagna, Danimarca, USA
Anno: 2024
Durata: 96 min
Genere: Drammatico, Grottesco, Visionario
Regia: Luis Ortega
Sinossi:
Remo Manfredini è un fantino leggendario ma spirale inquietante, dipendente da alcool e droghe. Assieme alla compagna Abril, anch’essa fantina e incinta, vive in una routine di autodistruzione. Dopo un incidente durante una gara decisiva, Remo scompare dall’ospedale e si rifugia per le strade di Buenos Aires, indossando i panni di Dolores e perdendo i confini di genere e identità, inseguito dallo spietato boss Sirena, deciso a ricondurlo — vivo o morto — al controllo.
C’è un gancio oscuro tra follia e liberazione, tra autodistruzione e rinascita, e El Jockey ci si infila con uno stile da sabba urbano. Luis Ortega, figlio del folk argentino e del noir di strada, serve qui una fiaba sconclusionata sul confine tra identità e carcassa. Sulle note di una tangente buffoneria kaurismäkiana tranciata da scossoni almodovariani, il film è un altare specchiato, e Remo, interpretato con maschera pietrificata da Nahuel Pérez Biscayart, è un fantino-spettro che impara a camminare dentro e fuori il suo corpo.
La transizione da uomo a donna non è un giravolta identitaria, è una discesa mistica: la perdita del nome, dei ruoli, della pelle per toccare la radice dell’essere. Lo stile è liquido, popolare e lisergico: camere fisse che tremano, colori saturi che implodono, stacchi che sono tagli al tessuto stesso della realtà. C’è un’aria di commedia nera nel primo atto, un elettricismo da Bordel latino, mentre il secondo atto implode in un teatro psichico di reclusione, abiezione e metamorfosi gender-fluid.
Sirena, il boss con neonati sempre nuovi in gabbia, sfuma tra omaggio buñueliano e critico del patriarcato generazionale: padrone, padre, padroneggiato, partoriente. È l’Autorità senza volto, l’Ombra maschile che giudica. Ed è qui che il film si fa complottista esoterico: la pistola non è solo un’arma, è una domanda cosmica su chi siamo, cosa scegliamo, chi ci spoglia della maschera.
La colonna sonora e la fotografia lavorano come clessidre estetiche: lunghe pause sulle pareti sporche, stacchi surreali in cui Remo fluttua nei flipper interiori, ritrova una coreografia mutante, mentre gli altri personaggi ballano luci e sangue. Ogni immagine ha la sensazione di un messaggio cifrato: non ci rimane che ricomporlo, anche a costo di restare fratturati.
El Jockey non migliora facilmente con l’analisi. Ti afferra come un incubo sudamericano e ti divora le certezze. È un film che vomita identità, che smaschera madri, padri, idoli e scommesse. E alla fine ti lascia a fissare la sabbia di Buenos Aires, pronto a perdere ogni certezza – perché nel falso bagliore del sogno lucido, siamo tutti jockey senza redini.
