
Titolo originale: L’étrangleur
Paese di produzione: Francia
Anno: 1970
Durata: 97 min
Genere: Drammatico, Noir, Psicologico
Regia: Paul Vecchiali
Un serial killer solitario si aggira per le strade notturne di Parigi, strangolando donne sole e disperate. La polizia lo cerca, ma lui sembra invisibile, una creatura nata dall’ombra stessa della metropoli. L’indagine si intreccia con la psicologia del delitto e con un legame sottile tra l’assassino e l’ispettore che gli dà la caccia, fino a un epilogo che non offre risposte, ma solo abissi.
L’étrangleur è una confessione che nessuno voleva sentire. Una sinfonia muta intonata da un’anima franata, e Paul Vecchiali la dirige come un chirurgo-poeta con un bisturi intinto nel nero dell’esistenza. Scordatevi il poliziesco, dimenticate il thriller: qui siamo nel territorio sottile in cui il delitto diventa metafora e la città una coscienza collettiva malata.
Parigi non è mai stata così muta e spettrale, una metropoli imbalsamata dal dolore, percorsa da un assassino che non ha rabbia, ma solo una struggente empatia per la sofferenza altrui. Perché l’assassino di L’étrangleur non uccide per potere o per vendetta. Uccide per pietà. Strangola donne che hanno smesso di credere nel domani, in un gesto che è quasi un’estrema forma d’intimità. Paul Vecchiali non giudica, non cerca mostri: sussurra. E ciò che sussurra fa male.
Il film è costruito come una litania: movimenti ripetuti, dialoghi stranianti, una lentezza che non stanca, ma ipnotizza. Ogni scena è un atto teatrale immerso in un silenzio che pesa più di mille grida. Vecchiali lavora come un alchimista del tempo: non lo riempie, lo distilla. La regia è severa, quasi invisibile, ma ogni inquadratura ha il peso specifico di un sogno finito male.
Il detective che insegue l’assassino è l’altra metà dello specchio: non un eroe, ma un uomo spezzato. I loro destini si intrecciano non per contrapposizione, ma per somiglianza. La caccia diventa quindi un confronto interiore, un cammino di specchi che sfuma i confini tra colpa e compassione, tra giustizia e abbandono.
L’étrangleur è cinema psichico, gnostico, perturbante. Vecchiali mette in scena la morte come atto d’amore, la solitudine come malattia endemica della civiltà occidentale, e la compassione come atto rivoluzionario. È un’opera quasi medianica, girata con gli occhi chiusi e l’anima aperta. Un film che sembra venire da un altrove, dove il noir non è genere ma condizione.
C’è qualcosa di Dostoevskij in quest’uomo che uccide per far finire il dolore, e qualcosa di Bergman in quelle inquadrature lunghe che fissano il vuoto finché diventa specchio. In un’epoca in cui tutto deve avere senso, Vecchiali osa il mistero. Non racconta il perché. Ti chiede di sentire. E questo basta.
Alla fine rimane il silenzio. E la consapevolezza che ci sono film che non parlano allo spettatore, ma ai suoi fantasmi.
