THE RED SPECTACLES [SubITA]

Titolo originale: Jigoku no banken: akai megane
Paese di produzione: Giappone
Anno: 1987
Durata: 116 min.
Genere: Azione, Poliziesco, Fantascienza, Visionario
Regia: Mamoru Oshii

Ispirandosi vagamente al romanzo “The Man in the High Castle” di Philip K. Dick, verso la fine degli anni ottanta Mamoru Oshii creò la Kerberos Saga, una narrazione multimediale il cui primo passo fu il qui presente “Akai Megane”, storico esordio dell’irrequieto regista nel campo del cinema live action tout court (percorso che condurrà al notevole “Avalon”, che sancirà la maturità dell’Oshii regista di film dal vivo). Fatto salvo ciò, la Kerberos Saga continuò con il manga “Kenrou Densetsu”, pubblicato tra il 1988 e il 1999, e poi con un secondo live action, “Stray Dog: Kerberos Panzer Cops” (1991). Il prodotto più notevole di questa insolita epopea dal sapore di thriller fantapolitico si tratta indubbiamente di “Jin-Roh” (1999), un lungometraggio – inizialmente concepito come serie OAV – scritto da Oshii e diretto dal giovanissimo talento Hiroyuki Okiura.
“Akai Megane” è un film molto insolito, permeato da un bizzarro alone di “B-Movie” coadiuvato da una scarna commistione tra il distopico à la “Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution” (film seminale nel suo genere targato 1965 e ovviamente molto apprezzato da Oshii) e la commedia teatrale dell’assurdo (genere che il regista trasporrà in due anni dopo, con il suo particolarissimo e brillante “Gosenzosama Banbanzai!”).

Protagonista del lungometraggio è il fuggitivo Koichi Todome, un ex membro del corrotto gruppo speciale di polizia denominato Kerberos Panzer Cops, ormai smantellato dalle alte sfere del potere e ritenuto illegale. Ritornato in Giappone al fine di ritrovare i suoi compagni scomparsi, Koichi viene catturato da alcuni spietati agenti governativi – il cui simbolo è un gatto, che si contrappone all’identità “canina” del protagonista -, i quali lo torturano e tormentano al fine di carpirne i segreti politici inerenti il corpo di polizia “pirata” che intende riesumare, che secondo loro sono contenuti nella borsa che lo sventurato si porta sempre appresso (sulla quale è presente un adesivo raffigurante un basset hound, il marchio di fabbrica del regista). Inizialmente gli ex compagni di Koichi sembrano averlo tradito, tuttavia la natura umana è molto complessa, e pertanto certe dinamiche sociali si riveleranno imprevedibili.

Nella sua distopia orwelliana low budget, nella quale i manifesti del Grande Fratello sulle pareti vengono sostituiti da quelli di una bellissima donna dai capelli lunghi e neri, altresì contemplabile in una sala cinematografica semivuota, Oshii inserisce rimandi al kung-fu movie parodiandone gli intenti, e scardina il normale modo d’interagire dei personaggi, che nella loro assurdità ed incoerenza comportamentale paiono quasi usciti da un film di David Lynch. L’opera presenta un sense of humor giovanile e fracassone (molto probabilmente mutuato dal “Brazil” di Terry Gilliam, uscito due anni prima, nel 1985), che stride notevolmente con il setting distopico e serioso con il quale deve convivere – contrariamente al successivo “Talking Head”, nel quale il regista riusciva a dosare il suo strano umorismo senza eccessive stridenti commistioni. Le scene più significative di “Akai Megane”, come è solito nel cinema di Oshii, sono costituite da dialoghi diretti ed intensi tra i personaggi, che anche in questo caso – sebbene in modo molto meno approfondito rispetto al resto della produzione filmica del regista – si scambiano elaborati discorsi e frasi taglienti che non mancano di citare Shakespeare al fine di tessere elucubrazioni psicologiche e filosofiche su concetti quali l’identità personale e il suo rapporto con il contesto che la circonda.

«L’uomo non è né un angelo né una bestia. Tuttavia, sfortunatamente, quando egli desidera atteggiarsi ad angelo, si comporta allo stesso modo di una bestia.» [L’inquisitore si rivolge al protagonista, puntandogli contro una pistola]

“Akai Megane” si suddivide in tre parti: l’introduzione (girata a colori), il ritorno di Koichi in Giappone (girato in seppia) e il finale (girato a colori). Questa sostanziale tripartizione suggerisce una suddivisione “psicologica” tra le tre fasi del film: a parer mio il colore suggerisce il “vero”, l’esperienza diretta, mentre invece il seppia una sorta di viaggio onirico all’interno della rielaborazione inconscia di un certo storico. La weltanshaung tipica della poetica del regista, in questo caso, su sua stessa dichiarazione, va ad esaminare i ricordi diretti del Giappone antecedente alle olimpiadi di Tokyo del 1964: il mondo distopico color seppia pieno di intrighi politici e povertà, nonché di situazioni paradossali e insolite, è un modo personalissimo del regista di rappresentare i suoi ricordi adolescenziali inerenti l’altro Giappone, quello non ancora ammesso all’interno della comunità internazionale e soggiogato dalle opprimenti forze governative statunitensi.

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«Quando diressi il film “Akai Megane” fu un disastro. La critica me lo distrusse, senza pietà. Dissero persino che non era un film. Ancora adesso mi sorprendo di come mi sia concesso di realizzare un tale esperimento. La ragione per cui non era stato apprezzato è che la storia non è attuale. Non è adatta al giorno d’oggi. I personaggi e la storia sono… come dire… fuori moda con i tempi. E’ un mondo diverso da adesso. Per i giovani, il decennio 1955-65 è un altro mondo. Quasi un’ambientazione fantasy. Certo, si parla di un intero decennio. Ma io lo vedo come il periodo precedente alle Olimpiadi di Tokyo. Non è un discorso sugli anni ’60. E’ che dopo le olimpiadi, il Giappone è cambiato. Quell’anno, io facevo la media. Io appartengo alla generazione-limite che ha la memoria di un Giappone che esisteva prima di quello attuale. Facevamo le elementari o le medie. Non ho alcuna intenzione di fare prediche su come fossimo tutti più poveri e infelici. Al contrario, vorrei che fosse recepita come un’epoca meravigliosa. A quell’epoca, la non era ancora consolidata. Il Giappone, e il mondo intero, cercavano ancora quale direzione prendere. Eravamo ancora convinti di poter far prendere al paese un percorso piuttosto che un altro. Anzi, non solo pensavamo che fosse possibile, ma era un problema reale, che faceva parte delle scelte che avevamo di fronte. Ripensandoci oggi, forse era solo un’illusione. Però quell’epoca è esistita. Ogni volta che vedo i giovani radunarsi con entusiasmo per un concerto o per i mondiali di calcio, penso che per noi sono solo surrogati. Avevamo degli altri obbiettivi in un mondo collegato al nostro modo di vivere. Un mondo in cui lottavamo per la nostra sopravvivenza. E volevo comunicarlo.» [Mamoru Oshii]

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Ed ecco che, nella misteriosa e commovente scena finale, la donna/Grande Fratello/cappuccetto rosso rappresentata in ogni dove nel Giappone in cui si svolgono le sventurate vicissitudini di Koichi, prendendo colore, da messaggera di si trasforma in un simbolo “positivo”, che pare quasi una sorta di rappresentazione dell’ambivalenza e delle potenzialità della giovinezza – infatti Oshii appartiene alla stessa generazione di Katsuhiro Otomo, ovvero quella formata dagli autori che avevano vissuto le contestazioni studentesche da adolescenti (la rappresentazione indiretta del ’68 sarà altresì presente in “Jin-Roh”, si pensi all’incisivo incipit del film).

Un pregio indiscutibile dell’opera è il suo mood molto particolare, in parte dovuto alle scelte registiche che la caratterizzano, e, in misura non trascurabile, all’amatoriale e goffa recitazione del cast di doppiatori messo insieme da Oshii grazie ai suoi contatti col mondo dell’animazione (il protagonista del film è impersonato da Shigeru Chiba, la voce narrante di “Urusei Yatsura”; la sua compagna di scorribande militari da Michiko Washio, la doppiatrice di Sakura, ben noto personaggio del suddetto anime; la ragazza dei manifesti invece da Mako Yodo, la voce della bambina di “Tenshi no Tamago”, e così via). Non manca inoltre la consulenza di Kunio Okawara, un mechanical designer che di certo non ha bisogno di presentazioni, e a ciò si aggiunge un Kenji Kawai in piena forma, che sforna un opening theme epico e multisfaccettato. Fatte tutte queste premesse, tuttavia, “Akai Megane” rimane a parer mio un film mediocre ed eccessivamente fine a sé stesso, uno dei capitoli più trascurabili della filmografia di Mamoru Oshii – nonostante le sue ottime premesse contenutistiche, la sua attitudine alla e la sua scoppiettante giovanilità, che purtroppo, qualitativamente parlando, ha ben poco da spartire con i lavori più maturi del regista.

Chiudendo qui il mio scritto, nei battenti finali del film, una scena rimane comunque impressa: gli occhiali rossi contenuti nella famigerata valigia di Koichi, invece di essere quelli degli esoscheletri dei Kerberos, si rivelano soltanto dei semplici, innocui occhiali da sole, di quelli che andavano in voga negli anni ottanta. Il significato di questo simbolismo lo lascio intuire a voi.

Nota

L’intervista a Mamoru Oshii da me riportata è stata trascritta dal bonus dvd di “Jin Roh” edito da Yamato Video.

By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

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