Titolo originale: Barbarella
Nazionalità: Francia, Italia
Anno: 1968
Genere: Commedia, Fantascienza
Durata: 98 min.
Regia: Roger Vadim
Nell’anno 40.000 d.C., in un’epoca di amore universale senza più bisogno di guerre e armi, la terrestre Barbarella è convocata per scoprire che fine ha fatto lo scienziato Durand Durand, inventore del raggio positronico. È l’inizio di una serie d’avventure interplanetarie all’insegna del piacere.
Follie kitsch dal ’68, tra fumetto, fantascienza e divertito erotismo
“Così brutto, eppure così bello”: Mark Wahlberg in Ted parlava così rivedendosi Flash Gordon (1980) di Mike Hodges, operazione cinema-fumetto nata sotto l’inconfondibile egida di Dino De Laurentiis, da lungo tempo determinato a “fare l’americano” tramite progetti di fantascienza, fumetto e fantasy, con esiti spesso tanto simpatici quanto disastrosi. Per Barbarella, altro prodotto targato Dino De Laurentiis, vale un po’ lo stesso principio, magari dopo aver operato una leggera modifica: “Così simpatico, eppure così brutto”. Da un lato è innegabile che il film di Roger Vadim, a suo modo epocale, nascesse in un contesto di diffuse libertà creative con poderosi sfondamenti verso inusitate fantasie e contaminazioni. Dall’altro, pur operando le necessarie relativizzazioni culturali e diacroniche, è davvero impresa ardua rivedere oggi Barbarellasenza scompisciarsi dal ridere non solo per la sua dichiarata autoironia, ma anche per la vera scapataggine di tutta un’operazione cinematografica. Genialate e stupidaggini, talvolta con qualche reale difficoltà a distinguere le prime dalle seconde, in un’atmosfera scatenata di kitsch e rivoluzioni culturali completamente fuori controllo. Tanto che alla fine ci si trova comunque a rimpiangere un cinema così libero e sbrindellato, del tutto alieno alle diffuse e quiete retoriche d’omologazione cinematografica dei nostri tempi, al punto che poteva permettersi anche impensabili accostamenti di casting (John Phillip Law e Ugo Tognazzi, David Hemmings e Marcel Marceau!). Nel 1968 ci si poteva appoggiare a un tycoon come De Laurentiis, ottenere ottimi finanziamenti per dare libero corso a una fantasmagoria senza limiti precostituiti, e fregarsene di dinamiche di dare/avere. Per un autore, sperperare il denaro di un mega-produttore si tramutava a sua volta in performance e in dichiarazione d’intenti.
Oltretutto, Vadim utilizzava i fondi di De Laurentiis per consegnare poi nelle mani del committente un prodotto comunque spendibile, che sposava il fumetto a una sana e goliardica disinvoltura nell’uso di nudi femminili e situazioni pruriginose, alcune d’inarrivabile acume comico. Perciò Vadim ricorreva all’industria per violentarla e poi riapprodare comunque a un’idea “d’industria”, in sostanza dunque svelandola a se stessa. Metti Jane Fonda seminuda in un contesto di follie audiovisive, e un pubblico lo troverai comunque. Poi a dire il vero Barbarella non fece sfracelli al box-office, profilandosi come un flop di notevoli dimensioni (evento ricorrente nei prodotti-fumetto o fantasy targati De Laurentiis), ma si tramutò in oggetto di culto. Jane Fonda, all’epoca già attrice impegnata che si apprestava a una carriera d’alto profilo lungo tutti gli anni Settanta (ben 2 Oscar in bacheca), si concesse una prova d’amore suprema nei confronti dell’allora marito Roger Vadim: prestandosi a una follia d’autore e rischiando come attrice di uscirne con le ossa rotte. A suo modo, invece, anche Barbarella è un’operazione controcorrente, in linea con le scelte di una star che si è sempre mostrata come voce fuori dal coro, contestataria e non allineata, almeno fino alle VHS d’aerobica degli anni Ottanta.
Com’è noto, Barbarella deriva da una serie di storie a fumetti di Jean-Claude Forest, che abbinavano avventure spaziali in un lontanissimo futuro a situazioni più o meno erotiche. Il film di Vadim riprende l’andamento narrativo della striscia, collocando Barbarella in una serie d’incontri e peripezie interplanetarie tenute debolmente insieme dalla ricerca di uno scienziato disperso, Durand Durand (sì, la band musicale britannica riprenderà il suo nome da qui). L’apparato scenografico si apre alle più svariate influenze del tempo, nell’ordine di un immaginario pop e psichedelico, senza curarsi mai troppo della dissimulazione della ripresa in studio. Barbarella si muove in un contesto futuribile (si parla dell’anno 40.000) in cui tutte le differenze e le guerre sono state appianate da una generale cultura intergalattica dell’amore, tanto da aver eliminato totalmente l’uso delle armi. Il sesso è stato soppiantato da rapporti di piacere privi del contatto fisico grazie alle risorse dello “psicosessogramma”, anche se poi Barbarella avrà ampie occasioni di riscoprire le care vecchie pratiche. I riferimenti all’attualità (di allora) e agli anni della Guerra Fredda sono costanti e dichiarati nel vagare dell’eroina spaziale da un contesto totalitario all’altro, in cui si muovono di nascosto anche rivoluzionari e contestatori (tutto il siparietto con David Hemmings, scritto secondo tempi comici molto azzeccati). Al fondo vige un’atmosfera generale di anarchia ludica e disimpegnata, in cui s’identifica nella dimensione del piacere l’unico tabù da liberare e preservare. Grazie a quello, si può davvero sperare in un futuro senza guerre.
Secondo tale linea di generica anarchia, Barbarella prende in giro un po’ di tutto, comprese le nuove retoriche della controcultura di cui si nutre (siamo tra il 1967 e il 1968, il Maggio è alle porte). La rappresentazione della libertà sessuale soprattutto femminile, tra celestiali orgasmi e realtà finalmente “svelate” (il Gran Tiranno è una donna in aria lesbo-sadomaso), è costantemente supportata da un risolino autoriale, che riconduce alla sua sana natura ludica tutto ciò che è connaturato alla dimensione del piacere. E il finale, altrettanto divertito, si apre alle gioie del rapporto a tre, con l’apollineo angelo cieco di John Phillip Law che vola nei cieli tenendosi aggrappate sia Barbarella che la sensuale tiranna. È altrettanto scoperta l’intenzione autoironica nei confronti della fantascienza cinematografica, ben supportata da un armamentario scenografico vistosamente grottesco. È probabile che nella lunga serie di accreditati alla sceneggiatura il contributo più decisivo sia venuto dal glorioso Terry Southern, già collaboratore di Stanley Kubrick per Il dottor Stranamore (1964) e autore del romanzo da cui sarà tratto Candy e il suo pazzo mondo (1968), operazione in qualche modo accomunabile a Barbarella.
Il gioco, insomma, è a tratti godibile, e si conserva tale anche a distanza di anni, con menzione speciale per l’esilarante sequenza del “pianoforte erotico” dello scienziato Durand Durand, progettato per far morire Barbarella di piacere (con il risultato, invece, che l’incontenibile orgasmo dell’eroina manda in cortocircuito la mirabolante invenzione). Non banali risultano anche i riferimenti agli abissi della psiche (altra scoperta fondante della cultura anni Sessanta) identificati nel misterioso e informe Matmos che instaura un rapporto simbiotico con il Potere. Ma è altrettanto vero che il gioco dura troppo, che la conclamata episodicità fumettara spesso si risolve in totale slabbratura narrativa, che le trovate sono a tratti divertenti, ma spesso anche puramente infantili. Che la visionarietà dell’insieme è più di cartapesta che di effettiva ispirazione autoriale.
Un pezzo di modernariato espressivo, che ci ricorda un’epoca felice per il cinema e per tutta la cultura occidentale, in cui si potevano concepire totali follie con buon dispiegamento di mezzi, ma talvolta senza il supporto di un’adeguata reinvenzione strettamente cinematografica. Ne è prova il fatto che Barbarella risulti davvero poco sperimentale sotto il profilo del linguaggio filmico. Un circo equestre di figure, colori, costumi, maschere inquietanti (le bambole mordaci non si dimenticano facilmente) all’interno di una grammatica condivisa. Più che un film, un fenomeno di costume che non a caso lanciò la moda dell’abbigliamento spaziale sull’onda delle creazioni di Paco Rabanne per Jane Fonda. Per cui, tenendo a futura memoria la bella sequenza iniziale del denudamento di Barbarella senza forza di gravità in un contesto amniotico (la nascita della nuova donna liberata?), per il resto si guarda, si ride, si sorride. Poi rapidamente si dimentica, e si passa ad altro.
Recensione: quinlan.it