
Titolo originale: The Age of Disclosure
Paese di produzione: Stati Uniti
Anno: 2025
Durata: 118 minuti
Genere: Documentario
Regia: Dan Farah
Sinossi
In un’America polarizzata e sull’orlo del collasso istituzionale, un analista dei dati governativi scopre una serie di file classificati che sembrano suggerire l’esistenza di un programma segreto di contatto extraterrestre attivo da decenni. Quando alcune parti dei documenti vengono misteriosamente rese pubbliche, il Paese piomba in un vortice di paranoia e isteria mediatica. L’analista diventa il bersaglio di agenzie contrapposte, lacerato tra il senso di responsabilità verso la verità e l’istinto di sopravvivenza. Man mano che la rete di menzogne si svela, il confine tra rivelazione, manipolazione e delirio collettivo diventa sempre più sottile.
Recensione
The Age of Disclosure è un film che arriva nel momento storico perfetto, quasi fosse stato generato dalla stessa infosfera tossica che vuole raccontare. Dan Farah costruisce un thriller paranoico che ricorda le grandi opere cospirazioniste degli anni ’70, ma le immerge nel caos algoritmico del presente: feed che bruciano, notizie che si cannibalizzano, verità che esplodono come micce accese in un Paese già sul punto di perdere l’equilibrio mentale.
Il cuore del film non è “gli alieni”, e Farah lo chiarisce fin dai primi minuti: ciò che conta è il modo in cui l’informazione — vera o falsa — diventa un’arma. La rivelazione non è un evento, è una strategia. E il protagonista, un uomo che ha passato la vita a trasformare dati in previsioni, si ritrova improvvisamente dall’altra parte del gioco, dove le informazioni non servono più a capire il mondo, ma a destabilizzarlo.
Il film ha un tono quasi febbrile. La regia è inquieta, fulminea, con un uso del montaggio che imita l’esperienza di scorrere un feed: tagli repentini, sovrapposizioni, schermi che si frammentano come coscienze sotto assedio. Ma accanto alla critica al presente, Farah inserisce una dimensione quasi metafisica. C’è l’idea che la verità non sia solo nascosta: sia insondabile. Che non siamo preparati a gestirla, e che la sua sola esistenza possa essere corrosiva quanto una menzogna.
La parte più affascinante dell’opera è il suo modo di trasformare la paranoia in rito iniziatico. Il protagonista vive la sua discesa verso il “Disclosure” come un pellegrinaggio oscuro, dove ogni domanda lo porta più vicino all’abisso. Non si tratta di scoprire se il governo nasconde gli UFO; è capire perché l’umanità abbia bisogno di credere a qualsiasi narrazione alternativa pur di evitare quella più spaventosa: la realtà nuda e cruda.
Farah gioca magistralmente con l’ambiguità. Il film è disseminato di indizi che non portano a una risposta univoca, e il narratore stesso — la macchina da presa — sembra diventare un agente di distorsione. Chi manipola chi? L’analista? Il governo? L’opinione pubblica? O qualcosa di più antico, più profondo, come un’archeologia del sospetto che vive dentro ogni individuo che teme di non avere più il controllo della propria vita?
Il climax è un capolavoro di tensione: un intreccio di rivelazioni e depistaggi che inchioda lo spettatore nella stessa condizione del protagonista, dove ogni certezza evapora e ciò che rimane è un senso di vertigine. Non c’è un finale rassicurante. Non c’è nessun momento catartico in cui si separa la verità dalla finzione. L’età della rivelazione, suggerisce il film, non è un’era in cui tutto diventa chiaro: è un’epoca in cui tutto diventa interpretabile. E quindi pericoloso.
The Age of Disclosure è un’opera che parla direttamente alla psiche collettiva del nostro tempo. È cinema politico, ma è anche horror sociale, ma è anche un viaggio filosofico nelle crepe dell’informazione moderna. Ed è spaventosamente credibile proprio perché non offre risposte: offre uno specchio. Sporco, distorto, ma inevitabile.
