NÓI ALBINÓI (DubITA)

 

Titolo originale: Nói Albínói
Paese di produzione: Islanda, Germania, Unito, Danimarca
Anno: 2003
Durata: 88
Genere: Drammatico
Regia: Dagur Kári

Il film è caratterizzato dall’ambientazione in un luogo desolato: uno sperduto della costa nord-occidentale islandese perennemente coperto di neve e praticamente isolato; una storia tragica ricca di comici o, a seconda dell’ottica, una commedia intrisa di tragedia che si sviluppa piuttosto lentamente, fino all’inaspettato finale.
Di certo un film insolito che ha conquistato il pubblico nordico e trionfato al festival di Rotterdam. (Wikipedia)


Doppiatori italiani:

  • Matteo Chioatto: Nói Kristmundsson
  • Gaetano Varcasia: Kristmundur “Kiddi Beikon” B. Kristmundsson
  • Selvaggia Quattrini: Íris Óskarsdóttir
  • Paila Pavese: Lína
  • Mino Caprio: Óskar Halldórsson
  • Luigi Ferraro: Gylfí


Nòi è un diciassettenne che vive in un piccolo villaggio. La madre è assente, il padre è anche troppo presente e tra una sbornia e l’altra riversa sul la mancata realizzazione delle sue velleità artistiche; i sono solo figure indistinte, gli entità lontane con cui è impossibile stabilire un contatto. Unici barlumi di affetto, la nonna taciturna, un bibliotecario e la nuova graziosa ragazza che lavora al distributore di benzina. Il sogno di Nòi è ovviamente la fuga, magari in coppia e verso lidi tropicali. Purtroppo l’unico punto di interesse del lungometraggio del debuttante Dagur Kàri sta nell’ambientazione islandese, che consente di sfogliare una geografia poco conosciuta attraverso la gelida di un microcosmo chiuso tra le pareti ghiacciate di un fiordo e lontano da tutto ciò che è considerato mondo. Se, infatti, proviamo ad immaginare la vicenda in un qualsiasi altrove con le stesse caratteristiche (non tanto climatiche quanto relazionali) scopriamo di avere già visto le medesime dinamiche da racconto di formazione “borderline” in tantissimi altri film (ad esempio “My name is Tanino”, per restare in Italia, o “Buon Mr. Grape” per andare oltreoceano). La solitudine, l’incapacità di aderire ai binari del quieto vivere, la voglia di fuggire, l’inadeguatezza di un percorso deciso da altri, vagano nello stereotipo e non trovano un punto di vista personale a cui aggrapparsi. Anche il taglio narrativo, greve con brio, ricalca con un sospetto di calcolo la stravaganza finnica di Kaurismaki. Qualche momento grottesco funziona (la fallita in banca), la magica luce degli antipodi è filtrata con gusto, ma i tempi dilatati, uniti all’insistito e opprimente accordo musicale che sottolinea la maggior parte delle situazioni, non si ammantano della necessaria purezza. Di sincero si sente solo un fondo di rabbia di probabile derivazione autobiografica (il regista è anche sceneggiatore). Il risultato, tutt’altro che illuminante e un bel po’ noiosetto, non va quindi oltre il compitino d’autore in odore di esportazione. (https://www.spietati.it/)

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