Titolo originale: Memoir of a Snail
Paese di produzione: Australia
Anno: 2024
Durata: 95 min.
Genere: Animazione, Drammatico
Regia: Adam Elliot
L’agrodolce biografia di una donna malinconica di nome Grace Puddle, che vive a Canberra e colleziona lumache, romanzi rosa e cavie.
Quindici anni rappresentano un lasso di tempo molto lungo per chiunque, ancor di più per un regista che sin dal suo primo corto, Uncle (1996), è stato in grado di richiamare a sé uno stuolo imponente di ammiratori. Adam Elliot, però, in questo periodo non sembra essere affatto cambiato. Anzitutto perché oggi, come 15 anni fa, il suo secondo film, Memoir of a Snail, si porta a casa il premio più prestigioso del Festival international du film d’animation d’Annecy, il Cristallo al miglior lungometraggio.
Grace è una donna di mezza età che all’ombra di un grande albero si ritrova a percorrere a ritroso tutta la sua vita, tra memorie personali e racconti altrui. Orfana di madre dalla nascita, trascorre l’infanzia e la preadolescenza in totale povertà insieme a suo fratello gemello Gilbert, l’ancora di salvezza verso cui è sempre protesa, e suo padre, un ex performer di strada, alcolizzato, goloso di liquirizie e costretto su di una sedia a rotelle da un brutto incidente. Brutalmente separati e costretti a vivere lontani, Grace e Gilbert verranno affidati a due famiglie completamente diverse: una coppia di mezza età senza figli, amanti dell’ordine, rappresentanti di una società di semafori di giorno e scambisti di notte, per Grace; una coppia di contadini ultra bigotta, con cinque figli e un’ossessione liturgica verso le mele, per Gilbert. I due si ritroveranno a essere fratelli-amici di penna – elemento autobiografico che torna presente dopo essere stato perno narrativo in Mary and Max – sognando, un giorno, di ritornare a vivere insieme.
Sono passati anni da Mary and Max ma la delicatezza narrativa di Elliot non sembra essere in alcun modo mutata. È proprio attraverso l’uso dei flashback, alternati tra le memorie di Grace, le lettere di Gilbert e i ricordi dei vari personaggi che si succederanno durante tutto l’arco della storia, che il film sembra sorvolare dolcemente sopra quasi mezzo secolo di cambiamenti.
Un puzzle che a mano a mano si ricompone alla ricerca del pezzo finale, quel tassello mancante che rappresenta il futuro incerto, verso il quale Grace cerca in tutti i modi di non incamminarsi. Rinchiusa all’interno di una teca di vetro come le sue amate lumache, l’unico ricordo della madre prematuramente scomparsa, osserva il mondo scorrere fuori dalla finestra, godendosi gli unici attimi di felicità con la sua amica Pinky, un’arzilla vecchietta che ama mangiare biscotti all’hashish, fumare marijuana, curare il suo giardino e bere whisky. Perfetto controcampo caratteriale di Grace, Pinky rappresenta tutto quello che l’amica ha sempre sognato di essere ma non è mai stata in grado di diventare. Sarà un colpo di fulmine sotto forma di baffuto vicino, Ken, che ama aspirare le foglie secche dal suo giardino, e la paura di rimanere da sola per tutta la vita, a scombussolare la vita di Grace. Un quasi matrimonio che segnerà il punto di non ritorno nella già precaria autostima della protagonista.
Se da una parte c’è la voglia del regista australiano di toccare temi delicati come il solipsismo esasperato, specchio di una contemporaneità post-pandemica, attraverso la costruzione di un personaggio, quello di Grace, che sembra incarnare un hikikomori ante litteram, è il ricorso a una spensierata e leggera ironia, a tratti anche nera – vedi i momenti più cupi, come la morte di alcuni personaggi – ad alleggerire tutto il film. In grado di trasportarci all’interno di un racconto dai connotati terapeutici e pedagogici (che per alcuni risulterà forse troppo spinto verso uno stucchevole pietismo). Una storia, quasi parabola, che con intelligenza riesce a mascherare le turbe dell’universo adolescenziale passando dal particolare della storia di Grace all’universale senso di impotenza nei confronti della morte. Con un binomio tematico che evidenzia in maniera indelebile la notevole maturità narrativa del regista nativo di Melbourne, in grado di elevare ancora una volta la tecnica della stop motion, cambiando la palette del nero e grigio di Mary and Max al beige di Memoir of a Snail, per rimandare al colore delle lumache e a quel deserto che tanti anni terrà separati l’un dall’altra i due gemelli.
Un film, come si è detto, in grado di trattare temi estremamente profondi (la morte, l’abbandono, il bullismo, etc.) con la leggerezza tipica di una favola per bambini, arrivando a un prefinale che con forza impone alla sua protagonista una necessaria presa di coscienza del mondo intorno a essa, riuscendo così a disvelare quella patina di autocommiserazione che non le permetteva di uscire dalla sua prigione di vetro.
Una metafora che trova compimento negli ultimi frammenti, ricucendo gli strappi del passato e volgendo lo sguardo verso il futuro. Perché, proprio come le lumache che non conoscono altre direzioni, l’unico modo per vivere una vita piena è guardare avanti senza voltarsi indietro.
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